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Siti archeologici

 

Siti Archeologici della Provincia di Bari

Celia peuceta (o semplicemente Cælia) 


Fu un antico insediamento di età arcaico-classica.

L'antico centro peuceta di Καιλία, identificato con la romana Caelia, sorgeva a 70 m s.l.m., su un pianoro delimitato a est e a ovest dai torrenti Fitta e Picone, 5 km a sud di Bari, dove oggi insistono gli abitati moderni di Ceglie del Campo e Carbonara di Bari. Le fonti letterarie non dicono nulla sulla sua origine, sebbene la si trovi citata da numerosi scrittori e storici latini e greci, tra cui StraboneTolomeo e da fonti geografiche e itinerarie (Tabula PeutingerianaAnonimo Ravennate e Guidone). Le recenti indagini archeologiche hanno dimostrato che il pianoro su cui sorse la città e il territorio circostante erano già frequentati in età protostorica, con modalità al momento non ancora ben definite.

L'età del Ferro è attestata da alcuni frammenti di ceramica di impasto rinvenuti sia lungo il percorso della lama Fitta, sia in alcune grotticelle artificiali in località Reddito, Buterrito, Tufaia, localizzabili a est dell'abitato moderno.

I secoli VII-VI a.C. sono documentati da aree di necropoli, individuate all'interno del circuito murario: la principale sembra essere quella in località Sant'Angelo a nord-ovest del centro moderno di Ceglie. La tipologia delle tombe è varia: a fossa, scavate nel banco roccioso con il defunto deposto in posizione rannicchiata e con il corredo disposto intorno (per lo più formato da ceramica geometrica apula e ceramica acroma); a sarcofago, chiuse da lastroni di pietra talvolta con tracce di decorazione pittorica, e tombe più monumentali del tipo a semicamera, dotate di ricco corredo.

Tra il V e il IV sec. a.C. si assiste allo sviluppo di un vero e proprio abitato urbano, difeso da una cinta muraria lunga 5 km, ora conservata in pochi tratti a causa di un sistematico smantellamento effettuato durante i primi anni del secolo scorso (i blocchi furono infatti reimpiegati per la realizzazione del lungomare di Bari). La struttura, dotata di quattro porte, era a doppia cortina, realizzata con blocchi sbozzati di varie dimensioni alloggiati senza malta con l'impiego di zeppe, e riempimento interno costituito da pietrame. Il percorso è ben ricostruibile in base ai resti rinvenuti ed alle tracce da fotografia aerea sia a oriente che a occidente, anche perché condizionato dalla presenza dei due torrenti. Risulta ancora visibile per alcuni tratti sul lato meridionale, in località Porta Mura, mentre il tratto settentrionale è più problematico: alcuni studiosi infatti propendono per includere buona parte del moderno centro di Carbonara di Bari, mentre altri tendono a farle girare prima, a nord-ovest dell'attuale Ceglie del Campo.

 

CEGLIE DEL CAMPO

 

In età ellenistica la città raggiunge il suo pieno sviluppo dimostrato dal rinvenimento di numerose tombe, con corredi ricchi di ceramiche dipinte a vernice nera o a figure rosse, appartenenti al ceto dirigente fortemente ellenizzato.

Nei corredi tombali di V sec. a.C. si ritrovano infatti vasi di notevole pregio di provenienza attica, come quelli attribuiti al Pittore delle Niobidi, al Pittore di Eretria, al Pittore di Calliope e di Crodo, e anche ambre figurate prodotte in Lucania e in Daunia, e statue di metallo, come quella dell'Apollo saettante, di produzione metapontina. Verso la metà del secolo diventa sempre più preferenziale il rapporto della città con il mercato delle colonie magnogreche, testimoniato dalla presenza delle prime produzioni della scuola “protolucana” (Pittore di Amycos), ma anche dei prodotti di grandi ceramisti attivi nella colonia di Thurii (Pittore delle Carnee e il Pittore della Nascita di Dioniso).

La città conserva una posizione di rilievo anche in età romana quando divenne civitas sociorum, come attestano le emissioni monetali in argento e in bronzo di III sec. a.C. con legenda in greco ΚΑΙΛΙΝΩΝ. Relative a questo periodo sono anche alcune strutture abitative che testimoniano l'espansione della città su buona parte del pianoro.

Sul finire del III sec. a.C. si è constatato un progressivo impoverimento dei corredi, segno di una crisi del centro forse anche per la progressiva ascesa della città di Barium, le cui strutture portuali vengono sempre più potenziate. Le uniche testimonianze relative all'occupazione dell'area in età tardorepubblicana provengono dagli scavi condotti in località Sant'Angelo, dove sono state portate alla luce numerose cisterne e fosse di scarico databili tra il III e il I secolo a.C. Inoltre in località San Nicola lo scavo ha permesso di documentare una frequentazione arcaica e classica, alla quale si sovrappongono tombe del III secolo a.C. coperte poi da uno strato di tufina pressata che dimostra una nuova destinazione abitativa dell'area in età tardorepubblicana, confermata ulteriormente dal rinvenimento di resti di un'altra abitazione articolata in più ambienti e datata alla stessa fase.

Nella riorganizzazione del territorio effettuata a partire dalla guerra sociale (89 a.C.), la città strutturata a municipio viene ascritta alla tribù Claudia, insieme a Barium e Rubi. Probabilmente in questo periodo venne posta sotto la guida di quattorviri, così come è attestato da un'iscrizione di I secolo d.C.

In età imperiale con la costruzione della via Traiana, si assiste allo sviluppo dello scalo portuale di Barium, che contribuisce alla decandenza di diversi centri della Peucezia interna tra cui Caeliastessa.

Delle vestigia dell'antica Caelia sono visibili alcune necropoli e sparuti lacerti della cinta muraria.

 

Norba Apula

Fu un antico insediamento fondato durante l'età del ferro.

La cittadina fu fondata dalle popolazioni indigene dell'Apulia (iapigi o peuceti) su una delle prime alture delle Murge, in posizione tale da dominare la campagna circostante fino alla costa adriatica. Le origini dell'insediamento sono ascrivibili almeno all'età del ferro, quando fu realizzata una possente cortina muraria in pietra che circondava interamente l'acropoli. L'ubicazione nei pressi di un'antica via di comunicazione che in epoca romana sarebbe stata chiamata via Minucia Traiana, rese Norba un abitato fiorente, al centro dei traffici tra le colonie magnogreche della costa e le popolazioni indigene dell'interno.

L'ampia necropoli risalente al VI secolo a.C. ha restituito infatti decine di tombe con ricchi corredi funerari, in parte di matrice ellenica.

Nel 268 a.C., con l'estensione dell'egemonia romana in Peucezia, anche Norba perse la propria autonomia; ciò nonostante, mantenne un ruolo rilevante anche sotto la dominazione di Roma, come attestato dai cospicui ritrovamenti di monete, armature, manufatti in terracotta e gioielli negli scavi archeologici compiuti dentro e fuori la cinta muraria. La stessa Tavola Peutingerianariporta il toponimo Norba, ma l'abitato non sopravvisse alla dissoluzione dell'impero, venendo presumibilmente distrutto dai Visigoti che invasero l'Apulia nell'anno 411. Il centro indigeno si trovava sulla via Minucia, variante interna della via Traiana costiera, frapponendosi agli abitati di Azetium (presso Rutigliano) e ad Veneris (di incerta identificazione). Superato il quale la strada si dirigeva verso la città costiera di Egnazia.

La località tuttavia fu presto popolata, sebbene con altro nome: già nel V secolo è infatti attestato il toponimo di Casale Cupersanem, che ha dato origine alla Conversano attuale.

 

CONVERSANO

 

Dell'antica Norba si conservano importanti resti delle possenti mura di fortificazione in opera poligonale che circondavano l'acropoli della città antica. Recenti scavi archeologici operati attorno all'abitato hanno riportato alla luce nuovi reperti, tra i quali corredi funerari di età preclassica e i resti della via Minucia Traiana.

Parco archeologico di Monte Sannace

Si trova sulla sommità di una collina nota appunto come Monte Sannace, a circa 5 km dalla città. Il sito archeologico ha rivelato i resti di un abitato degli antichi Peuceti risalente al X secolo a.C., di cui si ignora il toponimo originario (si pensa all'antica Thuriae, Θούριαι in greco antico, citata da Tito Livi).

Molti dei reperti sono esposti nel museo archeologico nazionale di Gioia del Colle, situato all'interno del castello normanno-svevo della stessa cittadina.

Come la maggior parte dei centri dell'antica Peucezia, l'abitato di Monte Sannace si localizza la dove vengono soddisfatte le esigenze della popolazione; queste sostanzialmente sono costituite da clima ed esposizione, le possibilità di difesa naturale, la disponibilità di terra coltivabile e la facilità di collegamento con gli altri centri abitativi. Per i Peuceti, quindi, il mare riveste una scarsa attrazione, è piuttosto funzionale alle necessità dei più importanti centri dell'interno.

Ubicato nel centro delle Murge Pugliesi, l'altopiano terrazzato di origine carsica che occupa parte delle attuali provincie di Bari e Taranto, domina la sella di Gioia del Colle ed è posto sullo spartiacque tra Ionio e Adriatico, in posizione strategicamente favorevole. Dall'alto del colle, che si innalza fino a 382 m s.l.m., si domina un vasto territorio, dal mar Adriatico a Nord, alla costa ionica a Sud, fino ai monti della Lucania ad Ovest. Il colle culmina con un altipiano di forma pseudo circolare con fianchi ripidi ed impervi sulla maggior parte dei lati.

La zona attorno al colle era particolarmente idonea alle coltivazioni agricole, favorite da abbondanza di acqua. Esisteva a quei tempi, infatti, un corso d'acqua che, lambendo il lato Nord della collina, sfociava nel mar Adriatico, in prossimità dell'odierno centro di Fasano. Essendo questo anche navigabile, rappresentava una veloce via di collegamento con il mare e gli approdi costieri. Diversi tratturi, inoltre, collegavano Monte Sannace con gli odierni centri di Polignano a Mare e di Mola di Bari, passando per i territori di Conversano e Rutigliano, verso Nord-Est, e con AltamuraGravina di PugliaSerra di Vaglio verso Ovest, dai quali poi si raggiungeva il mar Ionio all'altezza di Metaponto.

Oltre alla favorevole posizione geografica, il colle era ricco di una rigogliosa vegetazione, costituita prevalentemente da foreste caducifoglie, di querce e di lecci sempreverdi, con fitta presenza di fauna selvaggia, a differenza dell'attuale paesaggio, modificato dagli insediamenti umani e dalle pratiche agricole (la superficie boschiva è stata molto ridotta). Le caratteristiche del bosco, tuttavia, restano immutate in quanto tipiche dell'ambiente delle Murge: alle specie autoctone della macchia e del sottobosco, si uniscono le colture arboree di mandorli e ulivi coltivati dall'uomo fino a tempi recenti.

Le prime tracce di frequentazione del sito risalgono al Neolitico. La prima documentazione che attesti un insediamento vero e proprio risale però al IX secolo a.C., e perdura, con brevi interruzioni, fino al periodo ellenistico-romano (I secolo d.C. circa).

Fino all'VIII secolo a.C.

Nella prima età del Ferro, tra il IX e il VIII secolo a.C., l'abitato consisteva di un agglomerato di capanne in paglia e fango, con pavimenti in argilla, occupante la sommità della collina, oltre ad altri piccoli stanziamenti disseminati nella pianura circostante. Si tratta sostanzialmente di gruppi legati all'attività agricola.

VII-VI secolo a.C.

Tra il VII e il VI secolo a.C., l'abitato situato in cima alla collina comincia a acquisire importanza rispetto a quelli nella pianura, dai quali la popolazione si sposta, ad eccezione dell'abitato di Santo Mola che mantiene la propria autonomia, funzionale all'estrazione del tufo dalle cave presenti in quell'area. L'abitato comincia ad assumere una fisionomia urbana, probabilmente munito di una prima cinta muraria di difesa, che borda la collina. Compaiono complessi abitativi e edifici pubblici con funzione politica e religiosa, mentre vengono avviati i primi rapporti commerciali organizzati tra il mondo peuceta e la Grecia, in particolare con Corinzio. Altre case e tombe vengono costruite nella piana ad Ovest, l'abitato ormai assume l'attuale configurazione, articolato in due zone, acropoli e città bassa. Gli edifici sono prevalentemente a pianta rettangolare con fondamenta in pietra, e si arricchiscono in alcuni casi di decorazioni architettoniche policrome. Anche la struttura sociale subisce i cambiamenti provocati dai contatti con l'ellenismo: la società di Monte Sannace, già nel VI secolo a.C., è articolata in differenti classi sociali, come dimostrano le differenti tipologie di tombe appartenenti a questo periodo, e si assiste ad un primo accentramento delle ricchezze e gestione del territorio da parte di pochi ristretti gruppi aristocratici.

V secolo a.C.

La città è interessata da una continua crescita fino al V secolo a.C., quando comincia un periodo di conflittualità, come il resto delle popolazioni della Puglia interna, per mantenere l'indipendenza dalla colonia greca di Taranto. Il periodo di oscurantismo si ripercuote su un decadimento artistico e ridotta quantità di materiale ceramico ascrivibile a questo periodo, con ridottissime importazioni di materiali dalla Grecia.

 

L'area archeologica si raggiunge al Km 4,5 della strada provinciale "Gioia del Colle - Turi" (SP 61), GIOIA DEL COLLE

 

L'importanza archeologica della località era nota fin dal settecento grazie ad alcuni documenti e ritrovamenti fortuiti, perlopiù di tipo clandestino da parte dei contadini della zona.

La prima campagna regolare di scavi archeologici risale solo al 1929, per iniziativa dell'Ente Provinciale per la tutela dei monumenti in Terra di Barie diretto da Michele Gervasio, allora direttore del Museo barese . Lo scavo porta alla luce alcune sepolture ed un tratto della cinta muraria della città.

Nel 1957 le campagne di scavo assumono una maggiore regolarità sotto la tutela della Soprintendenza alle Antichità della Puglia e del Materano e la direzione di Bianca Maria Scarfì e si protraggono fino al 1961 . Questi interessano la zona pianeggiante dell'insediamento e quindi l'area dell'acropoli, portando alla luce la maggior parte dell'abitato situato in pianura, un lungo tratto della seconda cinta difensiva con la porta Nord, numerose tombe e diversi edifici dell'acropoli.

Una nuova campagna di scavi viene avviata nel periodo 1976-1977 sotto la direzione di Ettore M. De Juliis, in concomitanza con l'inizio dell'iter amministrativo per la tutela dell'area, con l'acquisizione di parte di essa al demanio dello Stato. Si portano alla luce ancora abitazioni e tombe nella zona bassa, mentre tra il 1978 e il 1983 si scava nella zona dell'acropoli, rinvenendo una grande casa aristocratica, altre tombe, alcune delle quali monumentali ed affrescate, gran parte di un edificio pubblico e un complesso abitativo di età arcaica. I risultati degli scavi sono pubblicati nel 1989. Il sito archeologico viene aperto al pubblico nel 1977.

A partire dal 1985 gli interventi della Soprintendenza sono mirati perlopiù alla conservazione e alla valorizzazione del sito, quindi con opere di restauro e manutenzione delle strutture antiche e dei luoghi nel loro complesso, nella realizzazione della viabilità interna e delle attrezzature del parco, e nel restauro di un edificio rurale ottocentesco, la masseria Montanaro, situato in prossimità dell'ingresso, adibito a centro di accoglienza dei visitatori e di orientamento alla visita.

Nel 1994 sull'acropoli è stato insediato un campo di attività della Scuola di Specializzazione per archeologi dell'Università di Bari, come campo di attività pratica per gli studenti, volta al rinvenimento di nuovi reperti e alla ulteriore valorizzazione del sito.

 

IV-III secolo a.C.

Tra la seconda metà del IV e il III secolo a.C. la città risorge a nuovi fulgori. Questo è il periodo di maggior splendore e ricchezza: le primitive mura intorno all'acropoli, costituite da blocchi informi di pietra, vengono rinforzati con tufo carparo a perfetta isodomia (1° circuito, lungo 1400 metri), mentre una seconda cerchia viene costruita per cingere città alta e città bassa (2° circuito, lungo 1700 metri); intorno al 300 a.C. viene costruito un terzo circuito di mura (3° circuito, lungo 1300 metri) intorno all'acropoli, ad integrazione delle fortificazioni già esistenti. La città si espande ulteriormente occupando gli spazi in pianura adibiti a pascolo inclusi nel 2° circuito di mura e aree all'esterno della cinta difensiva, articolandosi in isolati distribuiti attorno a strade. Con l'espansione dell'abitato, l'acropoli diviene sede di edifici pubblici (un portico colonnato che borda il lato orientale dell’agorà) e di residenze aristocratiche, nonché di tombe monumentali. Inoltre reperti archeologici testimoniano una ulteriore ellenizzazione della cultura, con la comparsa del bilinguismo, sebbene limitato alle classi più aristocratiche.

Nel corso delle guerre puniche (III secolo a.C.), la città e i pascoli circostanti vengono cinti da un quarto (4° circuito, lungo 3900 metri) ed un quinto circuito di mura (5° circuito, lungo 5500 metri). La tecnica rozza di costruzione suggerisce che probabilmente esse fossero legate a impellenti necessità difensive piuttosto che per fenomeni di espansione edilizia.

La città, verosimilmente, fu distrutta intorno al III secolo a.C., nel momento del suo massimo sviluppo, come testimoniato da reperti archeologici contenenti tracce della fine violenta della città connessa alle spedizioni punitive dei romani contro chi aveva, anche indirettamente, appoggiato le truppe di Cartagine; pare, comunque, che l'abitato di Monte Sannace abbia mantenuto un atteggiamento neutrale nei confronti delle due potenze, non gradito dalle mire egemoniche della Repubblica romana.

Epoche Successive

L'acropoli è stata occupata fino al I secolo d.C., mentre l'abitato in pianura perde importanza già dal II a.C.. Nel periodo della romanizzazione l'insediamento di Monte Sannace perde importanza: il territorio (la Peucezia interna) si trova escluso dalle principali arterie potenziate dai Romani. Pochissime tracce testimoniano la presenza di civiltà nel periodo romano. La località viene quindi abbandonata e resta disabitata per secoli. Le ultime tracce di occupazione risalgono al medioevo, quando viene eretta sulla collina una chiesetta dedicata a Sant’Angelo, i cui muri di fondazione sono stati individuati nella zona alta del pianoro. La chiesa citata su un documento del 1087 verrà anch'essa abbandonata.

 

Neapolis

Nel marzo del 1785 il vescovo di Polignano Mattia Santoro rinvenne nel suo orto un enorme sepolcro dipinto a motivi floreali. Il suo ricchissimo corredo funerario constatava di 64 manufatti, tra cui i resti di un'armatura con elmo bronzeo e quattro monumentali esemplari di ceramiche figurate. I reperti di maggior pregio, una sessantina, fra cui un cratere a volute a figure rosse del IV secolo a.C. alto più di un metro, furono donati da Mons. Santoro a re Ferdinando IV che li collocò nel Reale Museo di Capodimonte. I vasi di Polignano vennero dichiarati in un dispaccio reale essere «il più prezioso ornamento del Real Museo» partenopeo da cui mutuò il nome il grande cratere, che venne chiamato Gran Vaso di Capodimonte. Vi erano, poi, due grandi anfore figurate ed una pregevole loutrophoros. Dopo l'occupazione francese di Napoli e la dispersione del patrimonio vascolare del Museo Reale di Capodimonte, tre dei quattro grandi vasi finirono nelle collezioni di alcuni fra i più prestigiosi musei del Mondo nei quali sono stati recentemente identificati a seguito della pubblicazione dello studioso Giuseppe Maiellaro, L'Assemblea Divina (2015). 

 

 

 

 

POLIGNANO A MARE

 

A seguito della meticolosa e documentata ricostruzione del percorso del Gran Vaso di Capodimonte da Polignano a New York, il Metropolitan Museum di New York ha riconosciuto ufficialmente Polignano a Mare come luogo d'origine del cratere. Le due grandi anfore di tipo panatenaico sono invece ubicate presso il Louvre di Parigi ed il Museo Archeologico di Francoforte sul Meno. Unico vaso ad essere rimasto in Italia presso il Museo Archeologico di Napoli è la loutrophoros. Il grande vaso per abluzioni nuziali (loutrophoros), è stato esposto nella città dell'antico ritrovamento, in una mostra tematica (2016) presso Palazzo San Giuseppe dal nome "La Scoperta di Mons. Santoro dal Mito alla Realtà" curata da Giuseppe Maiellaro ed organizzata dallo stesso con il Comune di Polignano a Mare ed il Museo Archeologico di Napoli.

Nel corso degli scavi di Monsignor Santoro vennero ritrovate parecchie monete bronzee con l'iscrizione dorica NEAP, recanti le effigi di Dioniso, Demetra, Artemide ed altre, che insieme ai sontuosi corredi funerari attestano il ruolo strategico esercitato sul litorale adriatico dall'antica Neapolis Apula.

Azetium

 

LA STORIA

Fu un antico insediamento attestato archeologicamente a partire dall'età del ferro nell'odierna Puglia centrale.

L'area archeologica, tuttora caratterizzata dalla presenza delle mura di difesa di epoca classica (IV secolo a.C.), si trova a Nord - Est dell'odierno abitato di Rutigliano, in contrada Torre Castiello.

Il sito archeologico di Torre Castiello, ubicato sul poggio omonimo a Nord-Est della cittadina barese di Rutigliano, conserva le rovine della città peuceta di Azetium, che precorse la nascita dell'attuale borgo medievale. L'insediamento, che ha restituito tracce di frequentazione umana che risalgono all'età neolitica, fu occupato sporadicamente a partire del Bronzo Finale (XI - VIII secolo a.C.) e durante la successiva età del Ferro. La bassa collina, che racchiude un'area oggi intensamente coltivata a vigneti a tendone, è lambita sul suo margine meridionale e sud-occidentale da un solco erosivo di origine carsica, anticamente percorso dalle acque, e noto come Lama di Mosca - Giotta. Oltre ad aver fornito le risorse idriche necessarie al fabbisogno delle genti che si stanziarono sui pianori prospicienti, l'ampia e scoscesa vallata del torrente carsico costituì per l'insediamento una difesa naturale.

Il promontorio assunse fisionomia urbana probabilmente soltanto a partire dall'età classica, allorché venne eretto un poderoso circuito murario in buona parte tuttora conservato in situ. Infatti, attorno alla seconda metà del IV secolo a.C., le ostilità che contrapposero la città magno-greca di Taranto alle popolazioni dei villaggi messapi e peuceti della Puglia centro-meridionale contribuirono a fare in modo che la maggior parte dei centri indigeni si dotasse di ben più sicure opere di fortificazione e di difesa.

Il pianoro di Castiello risulta infatti tutt'oggi circondato da un'imponente muraglia della lunghezza complessiva di 3450 metri, costituita da un doppio paramento con émplekton centrale di riempimento. La fortificazione è composta da enormi blocchi isodomici di base (in opera poligonale) assemblati a secco, sovrastati da conci di misura via via inferiore. A seconda dello stato di conservazione, la sua altezza varia fra i 4 ed i 6 metri, mentre la profondità, in alcuni punti, raggiunge picchi di 5 metri. Lungo il perimetro, la cintura muraria presenta alcuni avancorpi a pianta quadrata e doveva essere intervallata da torri di vedetta: se ne conservano alcune sul versante esposto a Nord, fra cui l'erta "Torre Belvedere". Sul margine settentrionale, le mura raggiungono infatti dimensioni considerevoli e sono affiancate da una cortina esterna che corre parallela ad essa nella direzione in cui l'abitato si protende verso l'Adriatico e pertanto doveva risultare maggiormente aggredibile. Sul versante meridionale, invece, la muraglia si mostra meno robusta, essendo direttamente affacciata sulla forra della lama di Mosca da cui è naturalmente difesa.

L'ingresso alla città da Sud era assicurato da un viadotto conosciuto localmente come "Ponte Romano", il quale consentiva di scavalcare agevolmente il profondo solco torrentizio. Lo sconvolgimento dell'assetto idrogeologico del territorio, in gran parte dovuto alle trasformazioni agrarie dell'ultimo secolo (impianto di viti da tavola a tendone), ne determinò l'inesorabile crollo durante una poderosa piena alluvionale, occorsa nel gennaio del 1984.

L'insediamento dovette assumere fisionomia propriamente urbana durante l'età classica, periodo al quale si attribuiscono diverse sepolture a fossa, a semicamera e a cassa litica, la maggior parte delle quali già depredate al momento del rinvenimento.

La continuità di vita del centro indigeno è ben documentata in epoca ellenistica, quando probabilmente in cima al pianoro era collocata l'acropoli che ospitava un edificio di carattere pubblico, ipotizzato sulla scorta dei numerosi rocchi di colonne con scanalature rinvenute in passato in posizione di crollo (oggi irreperibili). In epoca repubblicana il centro continuò a svilupparsi, avvantaggiandosi della sua collocazione lungo un percorso viario noto come "mulattiera di Strabone", identificato con la via Minucia, variante interna della via Traiana subcostiera. Tale arteria collegava Bitonto ad Egnazia passando per i centri intermedi di Caelia (Ceglie del Campo), Azetium (Rutigliano) e Norba (Conversano). Inoltre era adeguatamente dotata di percorsi secondari che la collegavano alla costa adriatica, tuttora ravvisabili nelle diverse strade vicinali che dalla contrada di Castiello conducono sino al litorale (località "Cala Paduano", probabile sbocco portuale azetino, oggi fra Torre a Mare e Mola di Bari).

Il toponimo della città archeologica, di probabile origine paleo-italica (da Ausetium), si desume da diverse fonti di età imperiale (Plinio il Vecchio, l'Anonimo Ravennate, Guidone) e dalla fondamentale Tabula Peutingeriana o Todosiana (III-IV secolo d.C.), che riporta "Ehetium" (donde "Azetium", italianizzata in Azezio) come dislocata sulla direttrice interna di origine indigena prima menzionata, a metà strada fra "Celia" (Ceglie) e "Norve" (Conversano).

La sopravvivenza della città è documentata, ma solo sporadicamente, sino alla tarda età imperiale (V-VI secolo d.C.) attraverso rinvenimenti ceramici di superficie.

 

 

 

 

 

 

 

 

L'antico abitato di Azetium sorge su una modesta altura, in località Torre Castiello, circa 2,5 km a nord-est di Rutigliano, RUTIGLIANO

 

L'antico abitato di Azetium sorge su una modesta altura, in località Torre Castiello, circa 2,5 km a nord-est di Rutigliano.

Il primo studioso moderno che ne riporta la localizzazione è il Romanelli nel 1818. Infatti, le prime notizie relative a questo insediamento, noto per la sopravvivenza del circuito murario, risalgono agli inizi del XIX secolo e sono per lo più segnalazioni di rinvenimenti fortuiti, non localizzati con precisione, o acquisti di materiali archeologici da parte di musei regionali o, ancora, sequestri in relazione a scavi clandestini. I primi interventi di scavo, effettuati dal paletnologo Franco Biancofiore, risalgono al 1955 e vengono effettuati lungo il settore nord della fortificazione. La ceramica rinvenuta indica fasi di vita dell'abitato comprese fra l'età del Bronzo Finale e l'età tardoellenistica e repubblicana.

Le prime tracce di frequentazione ad Azetium sono rappresentate da alcuni frammenti di ceramica neolitica, raccolti in superficie nella parte meridionale della collina, probabilmente da porre in relazione con il vicino insediamento di Torre delle Monache, situato sulla sponda opposta della Lama Giotta. Più cospicua è la presenza di ceramica della prima età del Ferro, particolarmente concentrata nella zona settentrionae del promontorio. Si tratta di frammenti di vasi d'impasto bruno e nero lucido, e di resti di intonaco, che testimoniano l'esistenza di un insediamento stabilem costituito con ogni probabilità da un piccolo nucleo di capanne d'argilla e paglia, del tipo già attestato in numerosi villaggi iapigi disseminati nel territorio.

Con l'inizio dell'età storica le testimonianze di vita sul pianoro si diradano notevolmente, concentrandosi invece nelle zone adiacenti, a sud-est, dove si riscontra la presenza di abbondante ceramica di età arcaico-classica e di coppi dipinti in rosso di tipo laconico (contrada Petruso, Pappalepore, Le Rene). Ciò rende credibile l'ipotesi secondo la quale, in questa fase storica, la zona pianeggiante a sud-est della collina di Azetium doveva corrispondere alla sede di uno o più nuclei insediativi, dotati di edifici con fondazioni in pietra e coperture fittili policrome.

Una nuova fase di occupazione del promontorio si apre nel IV secolo a.C., protraendosi per tutta l'età ellenistica, e corrisponde al periodo di massima espansione edilizia ed economica dell'abitato, che assume ora una fisionomia propriamente urbana.

I rinvenimenti fortuiti proseguono spesso in occasione di lavori agricoli o dovuti a studiosi locali. Fra di essi si segnala il rinvenimento di una tomba databile al IV sec. a.C. e di un tesoretto di 80 denarii di età repubblicana.

Alla fine degli anni '70 si individua una cisterna a fiasca genericamente databile, in base alla ceramica e a tre monete presenti nel suo interno, all'età imperiale.

Negli anni '80 riprendono gli scavi nel settore nord delle mura e vengono individuate e scavate otto tombe a fossa databili fra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., periodo al quale di ascrive la costruzione della fortificazione e il maggior sviluppo dell'abitato.

 


Il sito di inestimabile valore storico-archeologico (oltre che ambientale e paesaggistico, per via dell'adiacente habitat naturale della lama) versa in colpevole stato di abbandono, in preda alle deturpazioni operate periodicamente dai coltivatori diretti che, in barba alle norme di tutela del sito archeologico istituite dagli anni ottanta del secolo scorso, seguitano a incrementare le piantagioni di vigneti a tendone, eseguendo finanche i proibiti e dannosi derocciamenti ("scassi") con frangipietre e arature profonde. Le stesse spesso riportano alla luce frammenti di ceramiche di pregio con tracce di decorazioni, insieme ad anse e altre porzioni di recipienti di ceramica d'uso.

 

Siti Archeologici della Provincia Barletta-Andria-Trani

Dolmen della Chianca

E’ un imponente monumento megalitico preistorico, risalente all'età del bronzo.

Il nome Chianca deriva dal termine dialettale biscegliese chienghe, cioè lastra di pietra o di lava. In alcuni testi, e su alcune guide, il dolmen della Chianca viene indicato con il nome di dolmen di Bisceglie; con tale nome è anche identificata l'area di servizio sull'autostrada A14 in direzione Bari dove in passato esso poteva essere visitato dopo un breve tragitto a piedi, mentre attualmente si può raggiungere attraverso la SP 85.

È opportuno tener presente che nel territorio biscegliese si trovano altri due monumenti megalitici dello stesso tipo: il dolmen di Albarosa e il dolmen della masseria Frisari.

La costruzione fu scoperta dagli archeologi Francesco Samarelli e Angelo Mosso il 6 agosto del 1909, in località "la Chianca" nel territorio di Bisceglie, in una zona distante dal Pulo di Molfetta di qualche chilometro vicinissima ad una lunga e profonda valle denominata "lama di Santa Croce", ricca di grotte che furono sede di frequentazione umana in più fasi. I primi scavi furono condotti dagli scopritori al momento del rinvenimento e furono proseguiti dall'archeologo Michele Gervasio negli ultimi mesi del 1910. Quando il dolmen fu scoperto i contadini del luogo avevano già rimosso tutto prima degli scavi, anche se alcune tracce dei mucchi di pietrame e di terriccio che coprivano la costruzione erano evidenti agli occhi degli archeologi.
Nella cella furono rinvenute ossa di animali, frammenti di piccoli vasi e alcuni coltelli di pietra risalenti intorno a 1200 - 1000 anni a.C., sei scheletri di adulti e di ragazzi disposti in modo disordinato, e due scheletri in posizione rannicchiata. Nel dromos furono trovate alcune stoviglie nerastre, un pendaglio in bronzo ed una brocca. I reperti furono acquisiti dal museo archeologico di Bari, ove attualmente sono conservati.
Sin dalla sua scoperta il dolmen della Chianca è sempre stato oggetto di studio da parte di studiosi autorevoli di ogni parte del mondo.
Il 9 giugno del 2007 le Poste Italiane hanno emesso un francobollo di 0,60 euro raffigurante il dolmen della Chianca.
Il 19 maggio del 2011 l'UNESCO ha riconosciuto il dolmen della Chianca di Bisceglie come "Patrimonio testimone di una cultura di pace per l'umanità".

 

BISCEGLIE

 

La costruzione megalitica, rientrante nella tipologia delle tombe dolmeniche a galleria ed a corridoio all'interno di tumulo ellittico, è costituita da una cella sepolcrale quadrangolare, formata da tre lastroni verticali in pietra calcare locale (Chianghe), di cui due sono disposti come pareti laterali ed uno come parete di fondo.
Su di essi è disposto orizzontalmente un quarto lastrone di pietra più grande che costituisce il tetto di copertura, ed ha una lunghezza approssimativa di 3,85 m ed una larghezza di 2,40 m. L'altezza della cella è di circa 1,80 m.
Secondo alcuni studiosi per posizionare la lastra del tetto si è reso necessario l'impiego coordinato di almeno un centinaio di persone I lastroni verticali poggiano direttamente sulla roccia ed uno di essi è caratterizzato da due piccole aperture.
La cella continua all'esterno in un corridoio scoperto lungo 7,60 m, orientato ad est e delimitato da piccole lastre di pietra disposte verticalmente lungo il dromos. La lunghezza complessiva dell'intero monumento è poco meno di 10 m.
Attualmente il dolmen della chianca costituisce un unicum, non soltanto per l'eccezionale stato di conservazione, ma anche per la consistenza numerica dei reperti, non comparabili con oggetti simili di altri dolmen presenti nel barese.

 

EVENTI:

Il dolmen della chianca è sempre stato un elemento di aggregazione di genti e culture diverse, che spesso ne hanno attribuito significati e valori simbolici sul piano antropologico, culturale ed economico. Da anni si svolgono intorno ad esso manifestazioni culturali.
Dall'estate del 2010 si svolge una rassegna di poesia che vede alternarsi poeti provenienti da tutta Italia. L'evento, "Notte di poesia al dolmen" organizzato dalla Pro Loco di Bisceglie, in collaborazione con il gruppo di poeti "La Vallisa di Bari", è diretto dai poeti Maurizio Evangelista e Teodora Mastrototaro. Nel 2012 è stato ospite il poeta e cantante Roberto Vecchioni.

Dolmen di Albarosa

E’ un monumento megalitico preistorico, risalente all'età del bronzo, ubicato nel territorio di Bisceglie in Puglia, a 109 m sul livello del mare.
Rispetto agli altri dolmen presenti nell'agro biscegliese, sorge a poco più di 1 km dal Dolmen della Chianca e a circa 1.2 km dal Dolmen Frisari.

Il nome Albarosa deriva dal casale di Albarosa e dall'omonimo altipiano, prossimo al crepaccio della Lama di Santa Croce, di proprietà della famiglia Berarducci, in cui sorgeva un enorme specchione entro cui fu rinvenuto il dolmen.

Il megalite fu scoperto nel 1909 dall'archeologo Francesco Samarelli, nello stesso periodo in cui si svolsero le indagini archeologiche degli altri due dolmen ad esso vicini: il Dolmen della Chianca ed il Dolmen Frisari.
Al momento della scopertà era visibile un enorme cumulo di pietre, denominato specchione di Albarosa, all'interno del quale fu trovato il sepolcro. Lo specchione originariamente aveva una pianta ellittica che subì nel tempo trasformazioni a causa dell'impiego del materiale litico disposto su di esso per la costruzione di trulli contigui. Lo specchione, che in pianta possedeva una lunghezza di circa 19 m ed una larghezza di 16 m, era alto circa 5 m.
Durante gli scavi del Gervasio furono rinvenuti frammenti di vasellame, un boccale ad impasto, intonaco di capanne, strumenti litici pertinenti ad un insediamento neolitico di epoca precedente.
Tra il 1961 ed il 1965 si svolsero ulteriori indagini archeologiche curate da Francesco Biancofiore, il quale poté affermare che la galleria, dopo aver accolto le deposizioni umane ed i relativi corredi, venne integralmente ricoperta dal tumulo. In tale circostanza furono ritrovati, all'interno del dromos e della cella sepolcrale, frammenti di ceramiche e di ossa umane. Dai ritrovamenti e dalle indagini svolte, il Biancofiore ritenne che la tomba fosse stata depredata col tempo ed in base ai reperti individuò la datazione del tumulo tra la fine del bronzo medio e l'inizio del bronzo recente (XIV – XIII secolo a.C.).
Nel 1987 furono effettuati interventi di sistemazione della galleria, che versava in condizioni precarie, seguiti da Francesca Radina della soprintendenza Archeologica della Puglia.

 

Si raggiunge percorrendo per circa 4.7 km in direzione Ruvo di Puglia la S.P. 86 Bisceglie - Ruvo di Puglia e imboccando sulla destra una strada rurale che conduce, in direzione di Lama Santa Croce, al megalite, BISCEGLIE

 

 

Il dolmen rientra nella tipologia a corridoio entro tumulo ellittico lungo 19 m e largo 16 m, con orientamento del dromos sull'asse est – ovest.
Esso risulta composto da una serie di lastre litiche che costituiscono le pareti laterali del corridoio.
Quest'ultimo, presenta un'altezza media di 1,80 m, è lungo circa 7 m ed è suddiviso in scomparti da lastre trasversali di pietra calcarea locale.
La copertura del dromos è mancante.
L'impianto sepolcrale è impiantato su una piattaforma artificiale di terra e pietre alta circa 0,50 m.

Dolmen Frisari


E’ un monumento megalitico preistorico, risalente all'età del bronzo, ubicato nel territorio di Bisceglie in Puglia, a 100 m sul livello del mare.

Rispetto agli altri dolmen presenti nell'agro biscegliese, sorge a poco più di 3 km dal Dolmen della Chianca e a circa 2.5 km dal Dolmen di Albarosa.

Il nome Frisari deriva dalla proprietà del fondo in cui il dolmen è stato scoperto. Fino ai primi del Novecento il terreno era di proprietà del senatore Giulio Frisari.

Il megalite fu scoperto nel 1909 dall'archeologo Michele Gervasio, nello stesso periodo in cui si svolsero le indagini archeologiche degli altri due dolmen ad esso vicini: il Dolmen della Chianca ed il Dolmen di Albarosa.
Al momento della scopertà era semidistrutto a causa degli interventi umani e del tempo.
Sin dall'inizio si presentò senza lastrone di copertura e delimitato da tre lastroni appena affioranti dal terreno, con l'apertura rivolta ad est. Inoltre all'interno della cella furono rinvenuti frammenti di un femore umano ed un dente molare.
Dalle dimensioni dei lastroni il Gervasio poté affermare che si trattava del più imponente tra tutti i dolmen pugliesi.
Nel 1990 la Soprintendenza Archeologica della Puglia avviò una nuova campagna di scavo ed un progetto di recupero dell'area su cui si trovava il monumento. Durante lo scavo venne alla luce una struttura di pietrame sciolto che appariva intenzionalmente inserito nella composizione di un basolato a lastroni sbozzati, che, disposti secondo uno schema più o meno regolare, poggiavano sulla piattaforma calcarea di base. Sui lati della struttura vennero rintracciati alcuni frammenti di lastroni calcarei dispersi e probabilmente appartenenti al corridoio. All'interno di quest'ultimo venne alla luce il battuto pavimentale argilloso di colore bruno – rossastro, su cui dovevano poggiare le deposizioni umane e gli oggetti funerari di corredo. Ciò è testimoniato dai resti ossei e dagli oggetti che si trovarono, tra cui la parte posteriore di un cranio di persona adulta, una piccola tazza ed una ciotola carenata, questi ultimi databili tra il XVI e il XV secolo a. C.

 

Si raggiunge percorrendo per circa 4.5 km in direzione Ruvo di Puglia la S.P. 86 Bisceglie - Ruvo di Puglia e imboccando sulla sinistra una strada rurale che conduce, in direzione di Lama d'Aglio, al megalite, BISCEGLIE

 

Il dolmen, del tipo a galleria con orientamento est – ovest, risultava composto da una cella, larga circa 2 m, che si sviluppava su una lunghezza di circa 3,65 m.
Il tumulo era a pianta ellittica con uno sviluppo massimo di circa 8 m sull'asse nord – sud.
A fronte di comparazioni effettuate con altri megaliti presenti nel nord barese, il dolmen Frisari è da considerarsi analogo al Dolmen della Chianca, nonostante la cella sia leggermente più stretta.

Basilica di San Leucio

 

E’ stata una chiesa del VI secolo di Canosa di Puglia (provincia di Barletta-Andria-Trani), sorta su un tempio di età ellenistica dedicato a Minerva. L'edificio, inizialmente dedicato ai santi Cosma e Damiano, fu ridedicato a san Leucio in epoca longobarda.

In antico Canosa è stato un florido centro commerciale e artigianale specializzata nella produzione di ceramiche e lana. Con lo sviluppo delle poleis magno greche subisce influenze di cultura ellenica, sia dal punto di vista morfologico che urbanistico, infatti doveva essere territorio ideale per la fondazione di una polis greca. I primi contatti con Roma sono visibili durante le guerre sannitiche, quando la giovane repubblica romana giunge in Puglia, sconfigge le popolazioni autoctone e il centro canosino è costretto a stringere un Foedus con Roma precisamente nel 318 a.C . Da questa data in poi subirà un processo di romanizzazione e rimarrà sempre fedele a Roma divenendo Municipium e colonia.Proprio in questo contesto storico si colloca l’antico tempio sotto San Leucio, databile tra la fine del IV e la prima metà del III sec a.C. Caratterizzato da una pianta etrusco-italica, (esempi di questo tipo li ritroviamo a Roma di proporzioni enormi come il tempio di Giove Capitolino). Il tempio è costituito da alto podio sagomato cui si accedeva mediante scale centrali. Proprio nella facciata ai lati dell’ingresso dovevano essere situati i due enormi Telamoni. Costituito esternamente da colonnato ionico, sormontato da un fregio dorico, a metope e triglifi su cui dovevano essere rappresentati i pezzi d’armatura. Internamente invece, la seconda fila di colonne doveva essere costituita da capitelli figurati come la testa femminile che emerge da cespo di acanto e compresa tra volute.

Il preesistente edificio pagano, probabilmente abbandonato dal IV secolo, doveva essere ancora in piedi e fu sottoposto a una sistematica opera di riuso dei materiali edilizi in occasione della costruzione della chiesa, che si impiantò sulle fondazioni del tempio. La chiesa, intitolata ai santi Cosma e Damiano fu edificata nel VI secolo ad opera del vescovo Sabino.

La pianta della basilica consiste in un "doppio tetraconco": un grande quadrato esterno, realizzato con muratura continua e dotato di quattro absidi semicircolari al centro di ciascun lato, al cui interno è inserito un secondo quadrato concentrico, costituito da pilastri e con le quattro absidi delineate da un giro di quattro colonne. I due quadrati vengono a delimitare un ambulacro a quattro bracci coperti da volta a botte, comunicante attraverso i passaggi tra i pilastri con lo spazio centrale, coperto in origine da una volta a padiglione; le absidi erano invece coperte da volte a semicupola. Questa disposizione richiama quella della basilica di San Lorenzo maggiore a Milano. I pavimenti erano decorati da mosaici geometrici, ma venne anche riutilizzato in alcuni punti il mosaico a ciottoli che apparteneva alla pavimentazione del tempio ellenistico. L'accesso avveniva, per mezzo di una gradinata, dall'abside orientale, mentre l'abside settentrionale era affiancata da ambienti di servizio.

 

 

 

CANOSA DI PUGLIA

 

In seguito probabilmente ad un terremoto, che dovette causare il crollo di parte del muro esterno e della copertura dello spazio centrale, fu ricostruita e restaurata, ancora nello stesso secolo, con l'aggiunta di contrafforti esterni e di nuovi pilastri a rinforzo delle colonne; al centro quattro nuovi pilastri con colonne addossate sorressero la nuova copertura a cupola dello spazio centrale. Nell'abside occidentale venne realizzato un altare con presbiterio e ciborio e i pavimenti vennero decorati da nuovi mosaici.

Nel corso del VII secolo tutta l'area intorno alla chiesa e il braccio sud al suo interno furono occupati da una vasta area sepolcrale. Nell'VIII secolo la chiesa fu ridedicata a san Leucio, il culto del quale si era diffuso in questa zona dopo la traslazione delle sue ossa da Brindisi a Trani.

Mosaici

Accedendo alla basilica tramite la gradinata aperta al centro dell'abside esterna orientale, si trova un mosaico a pelte sovrapposte in tessere nere; il tratto antistante dell'ambulacro presenta un motivo a cerchi incatenati che generano figure triangolari nere che compongono fiori a quattro petali. L'abside interna corrispondente è pavimentata a girali con tessere nere, gialle e rosse. Il resto del pavimento è decorato da due ampi mosaici con motivo a stuoia.

Proseguendo a destra dell'ingresso, il braccio nord dell'ambulacro è pavimentato a ciottoli: probabilmente qui ci si limitò a risarcire la pavimentazione del precedente tempio ellenistico. A sinistra dell'ingresso, il braccio sud dell'ambulacro presenta al centro, tra le absidi, un tappeto con meandro a chiave in cui si inseriscono rombi. Si conserva anche parte di un tappeto decorato con grandi fiori a quattro petali, che formano quadrati dai lati curvilinei, e il mosaico dell'abside esterna, con motivo a treccia.

Il presbiterio con grande altare coperto da un ciborio davanti all'abside occidentale è caratterizzato da mosaici sopraelevati rispetto al pavimento della basilica. Dietro l'altare, i tappeti musivi sono costituiti da piccoli rombi, ai lati invece da pelte affrontate, alternativamente verticali e orizzontali. Lo spazio antistante è decorato con tondi accostati di dimensioni diverse e con vari motivi decorativi: nodi di Salomone, girandole, fiori a stella, corone. L'abside è decorata da un noto motivo di tematica paradisiaca: due pavoni affrontati ai lati di un fiore posto su un grande cesto di acanto da cui si originano rami giraliformi carichi di fiori e frutta e popolati da uccelli, incorniciati da un motivo a treccia.

Antiquarium

Nell'Antiquarium, spazio espositivo aperto nel 2008 ed annesso all'omonimo sito archeologico, la storia di questo monumento viene rivissuta attraverso un percorso di visita articolato per sezioni cronologiche e tematiche, accompagnate da una serie di pannelli esplicativi e da alcune ricostruzioni grafiche e plastiche.

Nella sala I sono esposti i materiali e le strutture architettoniche del tempio di Minerva, reimpiegate in situ nella costruzione della basilica paleocristiana: tra questi semicapitelli corinzi con protomi di divinità, altri di ordine ionico, di grandi dimensioni, e i piedi di un gigantesco telamone.

Nella sala II sono esposti i reperti riportati alla luce durante le diverse campagne di scavo: tra questi il materiale, sia votivo che edilizio e d'uso, rinvenuto in un enorme "scarico" a sud del tempio, testimonianza delle vicende legate al culto di Minerva. Tra i reperti di epoca cristiana vi sono elementi in marmo dell'arredo scultoreo del ciborio e i mattoni bollati con il monogramma del vescovo Sabino.

 

Complesso Episcopale

 

Periodo paleocristiano Costruzione IV-V sec. d. C Un ambiente absidato, orientato ad ovest, accolse al suo interno tre sepolture; un'intensa destinazione cimiteriale riguardò nel tempo sia lo spazio antistante sia quello a sud di questo edificio. VI secolo La Chiesa a tre navate, era preceduta da un ampio nartece, fittamente occupato da sepolture, che costituiva il lato occidentale di un quadriportico. A sud della Chiesa si sviluppava il palazzo episcopale con uno spazio centrale scoperto e due gruppi di ambienti disposti sui lati orientale e occidentale, uno dei quali era rivestito da un pavimento costituito prevalentemente da mattoni recanti il monogramma del vescovo Sabino impresso sul lato visibile e dotato, come il vano attiguo di un camino-focolare. Ad est del palazzo episcopale era Collocato un ambiente absidato a destinazione cimiteriale, il cui accesso era garantito mediante un vestibolo collegato al portico antistante la Chiesa; i due corpi di fabbrica erano separati da uno stretto corridoio, interamente occupato da tombe sistemate in maniera regolare. Fine VI - VII sec. d. C. Vita del complesso, trasformazioni – divisione degli ambienti dell’episcopio, rinforzi angolari del portico dell’atrio – ed ulteriore sviluppo dell’uso funerario. VIII - X sec. d. C Vita progressivamente degradata ed uso cimiteriale del complesso; abbandoni e riutilizzazione residenziale di alcuni spazi.

 

CANOSA DI PUGLIA

 

 

La Chiesa di S. Pietro risulta il primo complesso episcopale Canosino in base alle notizie fornite dalla Vita di S. Sabino, operetta agiografica degli inizi del IX sec. d. C. Sulla base delle notizie fornite dalla Vita di S. Sabino, operetta agiografica degli inizi del IX sec. d. C., gli studi su Canosa paleocristiana identificano la Chiesa di S. Pietro con il primo complesso episcopale Canosino. 74Le ricerche archeologiche che dal 2001 si stanno conducendo sulla collina di S. Pietro (in periferia), finora risparmiata dall'espansione edilizia e mai sottoposta ad indagine stanno ascrivendo l'impianto di culto ad età sabiniana (pieno VI sec. d. C.) Le strutture della Chiesa dovevano essere ben visibili, sebbene allo stato di rudere, ancora nel XVIII sec., quando l'area, ormai utilizzata come cava per il recupero di materiale edilizio, venne occupata da orti e campi coltivati

 

Salapia

E’ stata un'antica città della Daunia, la cui diversa dislocazione sul territorio si è accompagnata ad una trasformazione del suo nome.

Trascurando la Elpia citata da Strabone, sulla quale è ancora tutto nebuloso, Salapia è la città fondata sul finire del X secolo a.C. da gruppi di Liburni approdati sulla costa del Tavoliere di Puglia. È la Salapia vetus di cui parla Vitruvio, tra gli studiosi nota anche come la Salapia preromana. Nel I secolo a.C., divenuta palude la laguna su cui si affacciava la città, i Salapini chiesero ed ottennero di potersi trasferire a quattro miglia di distanza in una zona più salubre: nasce così la Salapia romana, il cui nome piano piano si corroderà in Salpia e poi in Salpi. Con quest'ultima denominazione è ricordata anche come sede vescovile dal 314 al 1547, allorché la diocesi di Salpi viene soppressa e il suo territorio unito all'arcidiocesi di Trani.

Il sito archeologico relativo all'antica Salapia si trova nella parte meridionale del Tavoliere delle Puglie, a pochi chilometri a nord-ovest di Trinitapoli. Si tratta della Salapia vetus, citata in varie fonti letterarie, ma la cui ubicazione, incerta, è stata alla fine individuata in contrada Torretta dei Monaci grazie all'aerofotografia e agli scavi eseguiti a partire dal 1967.

 

La Storia

Le origini della città sono da riportare alla fine del X secolo a.C., nell'ambito delle migrazioni di genti illiriche dalla costa dalmata a quella pugliese: sulla base degli elementi emersi dall'indagine archeologica è stata avanzata l'ipotesi che a fondare Salapia siano stati coloni liburnici della città di Nin, i quali trovarono sul litorale pugliese lo stesso ambiente lagunare da cui provenivano.

La città si estendeva su tre “penisole” sporgenti nella laguna e, in un'area di circa 9 km², vi era l'abitato, la necropoli e gli spazi destinati al pascolo e alla coltura, utili in tempo di guerra. Il nucleo abitativo principale si trovava nella penisola maggiore ed era difeso, dalla parte del retroterra, da un bastione e un fossato. Salapia in origine era una frazione o colonia di Canusium. L'attuale Canosa di Puglia.

Dal punto di vista politico, Salapia come altri centri della Daunia, era organizzata in città-Stato, in cui il potere era nelle mani di una ristretta oligarchia. Conferma di questa autonomia politica viene dalla coniazione di una propria moneta, su cui troviamo spesso i nomi dei governanti del tempo.

Al tempo della seconda guerra punica Salapia ebbe al proprio interno due schieramenti, uno filoromano, guidato da Blattio, e uno filocartaginese, con a capo Dasio. Quest'ultimo prevalse in un primo tempo, tanto che Annibale soggiornò a lungo a Salapia: qui ebbe una relazione con una donna del luogo, bollata come prostituta da Plinio, che definì la città Oppidum Annibalis meretricio amore inclutum.

 

DAUNIA

 

In un secondo momento Salapia decise di passare dalla parte romana, cacciando il presidio cartaginese e ritornando a fianco di Roma (210 a.C.); con uno stratagemma Annibale cerca di entrare in città e vendicarsi, ma non ci riesce.

Successivamente Salapia sarà coinvolta nella guerra sociale, durante la quale fu assediata dal pretore Caio Cosconio, incendiata e quasi rasa al suolo.

Alla metà del I secolo a.C., quindi, la città è in piena decadenza, dovuta non solo alle vicende belliche e alle difficoltà economiche, ma anche alle mutate condizioni ambientali. Infatti, la laguna su cui si affacciava cominciò ad interrarsi per i detriti portati da vari corsi d'acqua e a trasformarsi in una palude generatrice di malaria. I Salapini, allora, grazie alla mediazione di un M. Hostilius– probabilmente un patronus della città –, ottennero dal senato romano di potersi trasferire a quattro miglia di distanza, in direzione sud-est, su di una piccola altura, località oggi denominata “il Monte”, a ridosso delle vasche delle Saline. La nuova città fu delimitata da mura e provvista, tramite un canale, di un porto sul mare, le cui strutture dovevano trovarsi nell'area dell'attuale Torre di Pietra.

Nasce così la Salapia romana, che pian piano vedrà il suo nome modificarsi in Salpia e poi in Salpi.

La floridezza economica raggiunta dalla nuova città fa sì che nel IV secolo ci appaia come sede vescovile: nel 314, infatti, Pardo, vescovo di Salpi, insieme al diacono Crescente partecipa al Concilio di Arles, in Gallia. E Pardo, allo stato attuale delle ricerche, è il primo vescovo pugliese storicamente certo. Altri vescovi sono annoverati nel V secolo, ma nell'Alto Medioevo la città non sfugge alla crisi che coinvolge l'intero Occidente, per cui la civitas si riduce ad un castrum, occupato in seguito dai Longobardi.

In costante ripresa a partire dal Mille, Salpi, prima signoria normanna e poi locus solatiorum prediletto da Federico II di Svevia, vivrà una fase di particolare floridezza nei secoli XI-XIII, allorché si ha anche la costituzione della Universitas hominum civitatis Salparum.

L'ultimo Medioevo, però, registra una crisi irreversibile della città, la cui fine è sancita dalla soppressione della sede vescovile nel 1547.

 

  

Siti Archeologici della Provincia di Brindisi

L'area archeologica di San Pietro degli Schiavoni

San Pietro degli Schiavoni è il nome del quartiere, centralissimo, che ospitava una chiesa dedicata all'omonimo santo e accoglieva gli abitanti di origine slava e albanese che furono protagonisti di un'immigrazione già dalla seconda metà del XV secolo.

Nei primi anni sessanta furono abbattute alcune abitazioni, per lo più fatiscenti, del quartiere con l'obiettivo di realizzare il nuovo Palazzo di Giustizia, all'epoca ospitato nel palazzo Granafei-Nervegna. Furono scoperti resti della città medievale, che furono distrutti dalle ruspe dell'epoca. Fermati i lavori del cantiere, vennero svolti degli scavi sistematici ad opera della locale soprintendenza archeologica.

Al termine degli scavi si è portata alla luce un'insula della Brindisi di epoca romana.

Nel 1967 il comune aveva programmato di realizzare su quell'area il nuovo teatro comunale, ma l'importanza della scoperta e il vincolo di conservazione imposto, portarono ancora alla revisione del progetto. Il nuovo progetto del teatro Verdi, opera dell'architetto Enrico Nespega, fu quindi quello di un enorme edificio in acciaio, "un teatro sospeso", in modo che l'intera area archeologica rimanesse fruibile ai turisti e agli studiosi.

 

Via Santi 1, BRINDISI

 

 

 

 

 

 

 

Muro Tenente

Muro Tenente era un sito fortificato messapico di medie dimensioni (circa 50 ha) come se ne trovavano nel Salento nel periodo precedente la colonizzazione romana (dall'età del ferro al IV-III secolo a.C.).

Dalle indagini archeologiche del territorio di Muro è emerso che la zona interna al ciglione era abitata già nel Neolitico, tra il IX e il III millennio a.C. circa, con una presenza molto marcata nell'Età del ferro, nell'VIII secolo a.C. Pochi e sparsi sono i manufatti ritrovati dell'età mesoliticaneolitica e del bronzo. Solo con l'età del ferro si hanno abitazioni costituite da capanne e inizia una continuità abitativa che porterà dalla estensione di circa 9 ettari (al centro del sito) fino ai 50 ha circa dell'età ellenistica, quando si ebbe la massima fioritura.

La storia della civiltà messapica e quindi di Muro Tenente cambia infatti quando cominciano a diventare più intensi i contatti (e le forti tensioni) con i Greci. Verso la fine dell'VIII secolo a.C. gli Spartani fondano la colonia di Taranto;

« essa porta ad una coesistenza e, naturalmente, ad una integrazione di due culture diverse (quella greca e quella messapica) durante i secoli successivi. I numerosi rapporti non sono basati solo su scambi di merci ed oggetti, ma anche di idee, nozioni e tecnologie. » (D. Yntema - Le ricerche dell'équipe olandese di Amsterdam nell'area brindisina)

 

A Muro Tenente sono stati condotti scavi da parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia (anni 1981-1993) che hanno fornito preziose notizie per lo studio degli insediamenti messapici mettendo in luce numerose sepolture, strade, fornaci di epoca ellenistica e fondazioni di vari nuclei abitativi, databili al IV secolo a.C. Anche gli scavi condotti dalla Libera Università di Amsterdam (anni 1992-2002) hanno evidenziato frammentari resti di case di età ellenistica (IV-III secolo a.C.) "dove si sono riconosciute le strutture di ambienti affiancati, aperti su cortili interni ed allineati lungo le strade, larghe circa m.4, che sembrano tracciate su assi regolari.

All'età ellenistica risalgono anche le fortificazioni di Muro Tenente, anzi sono state proprio le mura, che misurano 2.675 m "a fornire il toponimo all'intera località, dal Medioevo in poi, chiamata alternativamente Paretone/Paretalto e Muro".

Con la conquista romana di Taranto (272 a.C.) inizia la "romanizzazione" del Salento con una serie di campagne militari.

« Nel 244 a.C. i Romani installarono nella città messapica di Brindisi un gruppo di loro alleati di origine centro-italica. A partire da questo momento Brindisi nella sua veste di colonia latina funzionò da base romana nel Salento. In seguito all'incorporazione del Salento nel mondo romano i Messapi, già ellenizzati si trovarono coinvolti in un secondo processo di integrazione culturale. » (J. Boersma, D. Yntema, Valesio, Fasano 1987, pag. 28)

 

Con la colonizzazione romana comincia a Muro Tenente una lenta decadenza che porterà ad una contrazione dell'abitato fino all'abbandono totale nel periodo tardo-imperiale.

« Quindi si deve concludere che dal periodo romano, e soprattutto dal periodo imperiale non troviamo più un'organizzazione spaziale di modello urbano: la vecchia città di Muro Tenente non esiste più. » (G. J. Burgers, Le ricerche a tappeto: un esempio di urban survey)

 

La zona archeologica di Muro Tenente ha quindi le caratteristiche di un "sito fortificato", come quelli ritrovati ad Oria e a Valesio: con una popolazione che raggiunse il massimo sviluppo attorno al III secolo a.C. e che, nelle vicinanze delle abitazioni, aveva pascoli e terreni coltivati.

Nel Medioevo nella zona si sviluppò un casale chiamato Paretalto o Paretone.

 

TRA LATIANO E MESAGNE

Muro Tenente è situata a 2 km da Latiano e 5 km da Mesagne e ricade oggi sotto l'amministrazione di quest'ultima. Questo oppidum messapico viene spesso identificato con la Scamnum nota dalla Tabula Peutingeriana, ma la datazione di questo documento al IV secolo d.C. sembra escludere tale ipotesi. Infatti, anche se nella Tabula Peutingeriana Scamnum compare lungo la Via Appia come ultima statio (stazione di posta) prima di Brindisi, l'insediamento messapico di Muro Tenente non ha mai restituito reperti riferibili a questo periodo.

 

 

L'area di Muro tenente è stata interessata da scavi archeologici da parte della Soprintendenza Archeologica della Puglia a partire dagli anni sessanta. Dagli anni '90, l'insediamento fortificato messapico è oggetto di studi da parte della Libera Università di Amsterdam sotto la direzione scientifica del Prof. G.-J. Burgers. Da queste indagini è emerso che la zona interna alla fortificazione risultava interessata da una presenza stabile a partire dall'età del ferro (fine VIII secolo a.C.), quando l'insediamento raggiunge i 9 ettari di estensione. In età arcaica e classica l'area abitata non sembra estendersi oltre la superficie occupata nel periodo precedente. Le testimonianze quantitativamente più consistenti appartengono ad età ellenistica (IV-III secolo a.C.), quando viene eretta una seconda cinta muraria a racchiudere un insediamento di circa 50 ha. Una delle attrazioni più importanti di Muro Tenente è costituita proprio dall'eccezionale stato di conservazione del circuito murario. Sopravvissuto alla conquista romana del Salento (267-266 a.C.), l'insediamento sembra non superare agevolmente la seconda guerra punica, quando le testimonianze archeologiche documentano un paesaggio urbano oramai disgregato e defunzionalizzato e la contestuale costruzione di una "villa rustica" romana, attiva fino al I secolo d.C. Nel Medioevo l'area fu interessata dal fenomeno dei villaggi medievali i quali, a livello archeologico, rimangono praticamente sconosciuti in questa parte del territorio Salentino.

Tempietto di Seppannibale 

Conosciuto originariamente come chiesa di San Pietro lo Petraro si trova sulla strada per Monopoli ed è una costruzione a pianta quadrangolare a tre navate interne, con due cupolette disposte in asse. All'interno vi sono resti di affreschi di scuola beneventana.

In due donazioni (1086 e 1099Goffredo, conte di Conversano, donò la chiesetta di San Pietro Beterano all'abate Lorenzo di Monopoli.

I resti tuttora visibili degli affreschi, per quanto frammentari, mostrano alcune figure (forse Profeti) e scene tratte dal libro dell'Apocalisse.

 

CONVERSANO-MONOPOLI

 

Negli anni novanta, Gioia Bertelli, docente di archeologia paleocristiana e altomedievale presso il dipartimento di studi classici e cristiani dell'Università degli Studi di Bari, si è occupata delle indagini archeologiche dell'edificio religioso e dell'insediamento correlato ad esso.

Nella zona antistante alla chiesa sono emerse tracce di un abitato tardo antico, la cui fase di vita è compresa tra il IV e l'VII secolo. Le strutture tardoantiche si appoggiavano su muri di età precedenti (molto probabilmente di età romana, per il ritrovamento di monete degli imperatori VespasianoAntonino Pio e Commodo).

Al di sotto dell'edificio sacro sono state rinvenute tracce di muratura, forse un recinto sacro, con la presenza di animali (testa di un cervide, capretta integra, capro intero con nella bocca un chiodo di bronzo, una moneta e nei pressi una lucerna). La datazione è approssimabile all'inizio dell'impero.

 

Santuario di Monte Papalucio

E’ un importante santuario messapico che sorge sull'omonimo monte nel territorio di Oria in provincia di Brindisi, ad est dell'attuale centro cittadino. Il complesso sacro, ove si veneravano le divinità Demetra e Persefone, è sito in grotta.

Il santuario si trova lungo le pendici orientali della collina denominata ai nostri giorni Monte Papalucio. Lungo tutto il fianco della collina sono ancora oggi parzialmente visibili delle opere di terrazzamento, perché il luogo sacro potesse essere meglio fruibile. In basso erano presenti alcune fattorie. La grotta adibita al culto risulta di dimensioni modeste, specialmente oggi in quanto risulta parzialmente colmata. In realtà le grotte all'epoca erano differenti e comunicanti tra di loro.

Il santuario risulta essere uno dei più importanti dell'intera Messapia, insieme a quello di Grotta Porcinara di Leuca. La frequentazione del santuario è attestabile dal VI sec. fino all'età romana. Il santuario dovette rivestire una certa importanza anche in ambito magno-greco, come testimonia il rinvenimento di monete e ceramica anche pregiata.

 

 

 

ORIA

 

Gli scavi archeologici effettuati nel corso degli anni ottanta dall'Università del Salento, allora Università di Lecce, hanno messo in evidenza il luogo di culto dedicato alle divinità Demetra e Persefone. La ricerca ha interessato diversi ambiti tra cui: la ceramica, la numismatica, l'archeozoologia e l'archeobotanica. I depositi votivi trovati in prossimità della grotta e nella grotta stessa appartengono a classi eterogenee. Sono stati rinvenuti centinaia di vasi miniaturistici di ottima fattura, più vasi attici a figure nere del V secolo a.C., ceramica corinzia del VI sec., ceramica proveniente dalla vicina Taranto e dall'intera Magna Grecia. Sempre in ceramica sono state rinvenute delle figurine che raffigurano delle divinità o i due animali che qui erano sacrificati: piccoli maialini e colombi.

Oltre alla ceramica sono state rinvenute numerose monete da differenti città della Magna Grecia, a testimonianza dell'intensa frequentazione del sito e della città di Oria, in particolare le monete provengono da MetapontoCrotoneSibariTaranto. Riferibili direttamente al culto delle due divinità sono invece i resti vegetali e animali; i primi si riferiscono soprattutto a semi di melograno combusti, albero legato alla fertilità e alla primavera e dunque strettamente connessi alle due divinità cui era dedicata la grotta. I resti animali sono riferibili invece a maialini rinvenuti in forma di ossa combuste connessi anch'essi con il culto della fertilità.

 

Parco archeologico e naturalistico di Santa Maria d’Agnano

Dal 1987 il sito è oggetto di scavi archeologici condotti da Donato Coppola, con la collaborazione di numerosi studiosi provenienti da università e centri di ricerca italiani e stranieri. Il parco archeologico fu istituito nel 1991 ed è gestito dal museo di civiltà preclassiche della Murgia meridionale.

Proprio dal 1991 il professore Donato Coppola conduce nel sito ricerche sistematiche che hanno evidenziato come il grande riparo sottoroccia sia stato sede, per circa 30 000 anni, di riti e culti dedicati a un'immagine femminile. Il sito archeologico è raggiungibile dalla strada statale 16 Adriatica Ostuni-Fasano. Nella grande grotta-santuario sono state rinvenute le due sepolture "Ostuni 1" e "Ostuni 2". I calchi dei seppellimenti sono attualmente esposti nel museo e nella stessa grotta di Santa Maria di Agnano: nel museo sono inoltre esposti i resti di Ostuni 1.

 

OSTUNI

 

La grotta in cui si trovava la donna di Ostuni al momento del ritrovamento dista circa 2 km da Ostuni e costituisce un sito archeologico di primaria importanza per la ricostruzione della storia del paese. In origine la grotta si presentava come un grande ambiente unico.

Qui, infatti, secondo gli studi condotti da Coppola, le testimonianze rinvenute dimostrano che questa cavità e l'area circostante sono state oggetto di riti e culti dedicati all'immagine femminile. All'interno della grotta, oltre ai resti umani, sono stati ritrovati elementi del corredo funebre, bracciali di conchiglie forate al polsi della donna, un copricapo, strumenti in pietra e resti che ci documentano su una ritualità di divinizzazione della defunta, a scopi propiziatori.

All'interno della grotta sono emerse testimonianze che vanno dal Paleolitico fino al Medioevo: in particolare, un focolare e dei cereali sono riconducibili al neolitico.

Una particolare attenzione va posta al ritrovamento della donna di Ostuni: "Ostuni 1" è il nome scientifico attribuito allo scheletro di una gestante di 27.000 anni fa, ritrovato nella grotta di Agnano insieme ai resti di un feto di circa 33 settimane di gestazione. Il corpo della madre è stato rinvenuto in posizione fetale, con la mano sinistra posta sotto il capo e la destra delicatamente appoggiata sul ventre, quasi a proteggere la creatura mai nata. La donna, al momento della morte doveva avere all'incirca 20 anni. Dopo il rinvenimento lo scheletro è stato denominato "Delia" successivamente catalogato con il codice "Ostuni 1". Nella stessa grotta sono stati rinvenuti resti di uno scheletro, denominato "Ostuni 2"; la sua pessima conservazione non ha consentito di determinare il sesso. Non si esclude che in quella zona verranno ritrovati nuovi reperti risalenti al Paleolitico.

Castello d'Alceste

E’ un'altura che occupa il punto più alto (119 m s.l.m.) del territorio del comune di San Vito dei Normanni in provincia di Brindisiin Puglia e ricopre una superficie di circa 23 ettari.

Dalla sommità si può ammirare un vasto panorama dei principali insediamenti antichi della parte istmica del Salento (OriaMesagneMuro TenenteOstuniCarovignoCeglie Messapica). Qui si trova un primo recinto con pietre a secco ed una recinzione più larga alla base del colle ad andamento quasi circolare.

Nel 1985 sul colle viene scoperta un'importante area archeologica che era rimasta praticamente sconosciuta per secoli.

Tra il 1995 e 2000 si è avviata un'operazione di recupero e di ricerca, attraverso lo scavo in estensione e la prospezione sistematica dell'area attraverso foto aeree. Il lavoro è stato frutto della collaborazione tra Soprintendenza per i beni archeologici di Taranto, l'Università del Salento(Dipartimento di Beni Culturali) e il Comune di San Vito dei Normanni.

 

SAN VITO

 

Lo scavo ha permesso di identificare le tracce di un villaggio a capanne della seconda metà dell'VIII secolo a.C. e abitazioni a pianta ovale con copertura di materiale deperibile. Ad esse si sovrappongono nel VI secolo a.C. costruzioni con un impianto completamente diverso, che riflettono l'avvento di nuove tecniche costruttive e di un nuovo modo di concepire lo spazio abitativo. Le case di questo periodo sono articolate in più ambienti e presentano complessi sistemi di copertura che fanno uso di tegole.

Gli edifici si affacciavano su strade pavimentate con cocci sminuzzati e convergevano in una grande piazza sulla parte più alta della collinetta.

L'area archeologica offre una possibilità rara: osservare lo sviluppo di un abitato arcaico in un momento in cui cominciano a manifestarsi nuove forme di organizzazione insediativa. Le due diverse tecniche di costruzione riflettono, infatti, cambiamenti sociali di più vasta portata.

L'insediamento viene abbandonato definitivamente agli inizi del V secolo a.C.: lo scavo archeologico permette di leggere le tracce di una distruzione violenta. È probabile che tale evento vada ricollegato alle lotte che, in quel periodo, opponevano i Greci di Taranto alle popolazioni messapiche. Alle guerre tra Tarantini e Iapigi (o Messapi) fanno riferimento numerosi scrittori antichi; un vivido resoconto ci è stato tramandato da Erodoto (VII, 170,3).

Il 29 luglio 2009, nell'ambito della Giornata del Paesaggio, è stato inaugurato nella contrada Castello d'Alceste, il museo diffuso. Secondo del territorio pugliese, dopo quello di Cavallino, è stato realizzato anche grazie al supporto della Fondazione Cariplo-Acri Sviluppo Sud.

 

Valesio

E’ un sito archeologico a sud di Brindisi in provincia di Brindisi, raggiungibile dalla Superstrada Brindisi-Lecce allo svincolo per il comune di Torchiarolo. Nella Tabula Peutingeriana questo sito è indicato come Mutatio Valentiaed è posto a metà del tragitto della cosiddetta Via Traiana Calabra che andava da Brindisi a Lecce per proseguire sino ad Otranto.

A Valesio sono state trovate, negli anni, tracce di insediamenti che vanno dall'età del ferro sino all'Alto Medioevo.

In base al numero e caratteristiche dei ritrovamenti effettuati sino ad oggi, l'antica Valesium sembra raggiungere il massimo splendore nei secoli VI-I secolo a.C. come città federata con le poleis messapiche disseminate in tutta la penisola salentina. I messapi erano una popolazione autoctona, forse di antiche origini illiriche, che, per la particolare posizione del territorio che essi occupavano, aperto ai traffici commerciali del Mediterraneo, avevano assunto usi e linguaggio fortemente ellenizzati.

Il sito di Valesio presenta ancora oggi chiare tracce della cinta muraria che si estende per un perimetro di ca. 3430 metri, di forma quadrangolare, per un'estensione complessiva dell'area di 84 Ha.

All'interno di esso scorre un torrente, chiamato Infocaciucci. Nel sito sono state spesso scoperte tombe risalenti al periodo messapico, contrassegnate dalla formula tabara damatra oppure Tobaroas Damatrioas, che sembra significare, secondo gli studi più diffusi sulla lingua messapica, devoto/a alla Dea Demetra oppure (tomba) della sacerdotessa di Demetra.

Valesio era tra le città messapiche che battevano una propria moneta, a testimoniare dell'importanza commerciale che questo insediamento aveva nell'economia della penisola salentina.

 

TORCHIAROLO

 

Periodo Romano

Al centro del sito, in un luogo lievemente sopraelevato forse corrispondente all'acropoli nel periodo greco classico, fu scoperto negli anni '60 da Gabriele Marzano, direttore del Museo archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, un grande impianto termale romano risalente al primo secolo dopo Cristo, comprensivo di tre stanze in cui ristorare gli ospiti con acqua calda (calidarium), tiepida (tepidarium), e fredda (frigidarium), come anche stalle per il cambio dei cavalli.

L'impianto termale fu oggetto, dal 1984 sino al 1991, di uno scavo sistematico e totale da parte dell'équipe del prof. Boersma del Dipartimento di archeologia classica della libera università di Amsterdam, confermando in tal modo la funzione che Valesio ebbe nel periodo romano di statio lungo il tragitto della via Traiana, nel suo ultimo tratto fra Brundisium (Brindisi) e Lupiae (Lecce). L'analisi del materiale ceramico utilizzato nel riempimento di alcuni degli ambienti dell'impianto, permise di datare quest'ultimo all'inizio del IV secolo d.C., periodo in cui la Via Traiana e Calabra fu oggetto di ristrutturazione da parte dell'imperatore Costantino. Lo scavo del complesso fu esteso a tutti gli spazi circostanti, scoprendo nell'area probabilmente corrispondente all'atrio di ingresso, un ampio mosaico.

L’alto Medioevo

Al centro del sito, in un luogo lievemente sopraelevato forse corrispondente all'acropoli nel periodo greco classico, fu scoperto negli anni '60 da Gabriele Marzano, direttore del Museo archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, un grande impianto termale romano risalente al primo secolo dopo Cristo, comprensivo di tre stanze in cui ristorare gli ospiti con acqua calda (calidarium), tiepida (tepidarium), e fredda (frigidarium), come anche stalle per il cambio dei cavalli.

L'impianto termale fu oggetto, dal 1984 sino al 1991, di uno scavo sistematico e totale da parte dell'équipe del prof. Boersma del Dipartimento di archeologia classica della libera università di Amsterdam, confermando in tal modo la funzione che Valesio ebbe nel periodo romano di statio lungo il tragitto della via Traiana, nel suo ultimo tratto fra Brundisium (Brindisi) e Lupiae (Lecce). L'analisi del materiale ceramico utilizzato nel riempimento di alcuni degli ambienti dell'impianto, permise di datare quest'ultimo all'inizio del IV secolo d.C., periodo in cui la Via Traiana e Calabra fu oggetto di ristrutturazione da parte dell'imperatore Costantino. Lo scavo del complesso fu esteso a tutti gli spazi circostanti, scoprendo nell'area probabilmente corrispondente all'atrio di ingresso, un ampio mosaico

 

Reperti presso il Museo

Presso il Museo archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, è presente la Sala Valesio dedicata a reperti provenienti dall'omononimo sito: corredi tombali con vasi apuli e di Gnathia, iscrizioni funerarie, pesi da telaio, epigrafi, lastre funerarie con iscrizioni messapiche, monete, vasi in bronzo, in ceramica e a vernice nera, elementi architettonici in terracotta e in pietra, sfere fittili probabilmente utilizzate come armi da catapulta e tanti altri oggetti ritrovati durante gli scavi di Valesio (in dialetto i torchiarolesi dicono 'Valisu').

 

Grotta di Facciasquata

L'ingresso alla cavità naturale si trova nei pressi della masseria Abate Carlo, ad un'altitudine di 300 m s.l.m.

All'interno della grotta sono stati rinvenuti agli inizi degli anni settanta dal gruppo speleologico di Martina Franca, reperti che testimoniano della sua frequentazione dal neolitico all'età del bronzo e di una sua funzione di rifugio anche in epoca altomedioevale.

 

VILLA CASTELLI

Grotta di Montescotano

Fu scoperta nel 1979 dal "Gruppo speleologico martinese", che dopo aver liberato il primo vano della grotta dalle pietre, scoprì un cunicolo lungo 6 metri terminante in un altro vano, nel quale vennero ritrovate numerose lucerne, molte delle quali intatte. La presenza di questi reperti ha permesso di ipotizzare che la grotta fosse stata utilizzata come luogo di culto pagano prima messapico e poi romano, tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.

A circa 400 metri a sud ovest della grotta vi sono i resti di un insediamento del IV secolo d.C. (epoca tardoromana).

 

VILLA CASTELLI

Grotta Monte Fellone

È ubicata nei pressi all'omonima masseria del XVII secolo.

Possiede due ingressi, uno orizzontale e l'altro verticale posti all'altezza di m. 325 s. l. m. Il primo rilievo archeologico è stato effettuato nel 1965 la Sovraintendenza per le antichità della Lombardia in collaborazione con la sovraintendenza per i beni archeologici della Puglia effettuò una serie di studi sulla grotta nel mese di agosto. Rinvenendo reperti di tipo fittile, litico e faunistico e un osso umano lavorato, forse utilizzato come strumento musicale. Una seconda campagna di scavi è stata condotta nel 1966 con i seguenti risultati La Grotta di Monte Fellone fu abitata durante il Neolitico Medio e saltuariamente nell'Età del bronzo  La maggior parte dei frammenti fittili si ricollegano a quelli del tipo Ostuni  antichi graffiti a volte di esecuzione accurata. 

VILLA CASTELLI


Siti Archeologici della Provincia di Foggia

Pirro Nord

Gli scavi sistematici, diretti dall'Università di Ferrara, hanno permesso di portare alla luce più di 300 strumenti in selce e migliaia di ossa appartenenti a quasi cento specie diverse.

Il sito di Pirro Nord è situato sul margine nordorientale del promontorio del Gargano, vicino alla città di Apricena. Si trova, all'interno di una cava di calcare. La "fessura Pirro 13", che ha restituito i resti dell'attività antropica, è collocata al tetto della formazione calcarea mesozoica e durante il Pleistocene faceva parte di un intricato complesso carsico.

La fessura contiene resti paleontologici villafranchiani, con ossa di bisonti (Bison degiuli), caprioli (Capreolus sp.), cavalli (Equus altidents), mammut (Mammuthus meridionalis), rinoceronti (Stephanorhinus sp.), tigri dai denti a sciabola (Homotherium latidens) e di più di 20 specie di anfibi e rettili e di 47 specie di uccelli.

L'ambiente, al momento dell'occupazione umana, era caratterizzato da spazi aperti, tendenzialmente secchi ma con presenza di specchi d'acqua stagionali.

Cronologia

L'attribuzione cronologica del sito è stata fatta su base biocronologica. I fossili sono attribuiti al Villafranchiano finale (Pleistocene inferiore). Le analisi paleo-magnetiche, ancora in fase di affinamento, suggeriscono che la fessura Pirro 13 possa essere riferita al Matuyama, in un'età successiva al crono Olduvai.

 

Apricena

Materiali Litici

Dal 2006 ad oggi sono stati rinvenuti più di 300 manufatti scheggiati a partire da piccoli ciottoli in selce raccolti in posizione secondaria nelle aree limitrofe al sito. Le catene operative, seppur non complete, attestano tutte le fasi della produzione, dalla decorticazione fino all'abbandono del nucleo. I metodi di scheggiatura adottati sono finalizzati all'ottenimento di schegge con almeno un margine funzionale. I ciottoli di medio-grandi dimensioni sono stati sfruttati con un metodo di scheggiatura opportunista che prevede lo sfruttamento di più piani di percussione ortogonali tra loro tramite una scheggiatura unipolare. I nuclei sono stati sfruttati fino ad esaurimento totale della materia prima, nella maggior parte dei casi. I ciottoli di piccole dimensioni sono stati sfruttati con una modalità centripeta e i prodotti ottenuti (schegge) presentano delle morfologie "standardizzate": schegge di forma triangolare con una punta non in asse e un debordamento opposto alla punta.

 

 

Marmi di Ascoli Satriano 

Sono un complesso di reperti in marmo del IV secolo a.C. appartenuti ad una tomba dell'élite principesca dauna e rinvenuti nel territorio di Ascoli Satriano. Sono conservati nel museo civico di Ascoli Satriano.

Il complesso è costituito da un cratere decorato con corona d'oro, un bacino rituale dipinto (podanipter), un sostegno di mensa (trapezophoros) con coppia di grifi, una coppia di mensole e alcuni pezzi minori.

Nel gruppo viene inclusa anche una statua di Apollo con grifone, risalente al II secolo a.C., ma assimilata agli altri pezzi per il luogo di ritrovamento.

Gli oggetti del complesso furono probabilmente rinvenuti tra il 1976 e il 1977 attraverso scavi clandestini per mano di tombaroli locali, che misero in luce ventuno oggetti di varia natura, smembrati a scopo commerciale. Alcuni pezzi furono sequestrati dalla Guardia di Finanza, mentre il supporto per mensa con i grifoni e il bacino rituale dipinto, più pregiati, furono venduti al mercante d'arte Giacomo Medici, entrarono illegalmente a far parte della collezione di Maurice Tempelsman e poi al Paul Getty Museum, entrato in possesso anche della statua di Apollo con grifo. I reperti furono poi restituiti all'Italia nel 2007.

 

Gli oggetti dovevano appartenere al corredo di una tomba a camera. La delicata pittura ancora conservata sul bacino rituale indica infatti probabilmente una funzione solo funeraria, limitata al solo contenimento dell'acqua rituale durante la cerimonia funebre. Analogamente la corona d'oro in origine posta sul cratere è legata all'esaltazione del defunto e non ha solo scopi decorativi. Il sostegno con i grifoni doveva sostenere una mensa marmorea, oggi perduta utilizzata, come tavola per le offerte (dove erano disposti gli altri oggetti, forse con al centro il cratere, mentre le mensole dovevano sorreggere il letto funebre.

 

ASCOLI SATRIANO

 

Gli Oggetti:

Il Cratere e la Corona d’Oro

Il Sostegno di Mensa

La Statua di Apollo con Grifone

Mensole

Oinochoe a bocca rotonda: si tratta di una brocca per il vino, probabilmente incompleta, con tracce di dipintura sull'orlo e sulla spalla.

Epichysis: si tratta di una brocca dal corpo cilindrico decorato a baccellature piene, con ampio piede, più alto e sottile che nell'oinochoe, e con collo stretto e allungato; dell'ansa rimangono soltanto gli attacchi.

Loutrophoros: ugualmente composto da tre parti distinte, collegate tramite concavità e convessità, presenta corpo troncoconico, anch'esso in parte decorato da baccellature piene, con lungo collo cilindrico terminante in un ampio labbro piatto dal bordo sagomato.

Podanipter: vasca del bacino rituale, essa presenta all'interno la scena del trasporto delle armi forgiate da Efesto per Achille su richiesta della madre Teti, aiutata dalle sorelle. Sulla vasca ora è visibile solo Nereide che reca lo scudo.

Sui vari oggetti dell'insieme sono stati identificati nove colori diversi: rosso, rosso-violaceo, azzurro, rosa, bianco, beige, giallo, verde e marrone: ricorrono con più frequenza il rosso e l'azzurro scuro.L'accostamento fra i diversi toni di rosso e l'azzurro accompagnato al bianco e al giallo oro sono procedure tipiche della decorazione a tecnica sovraddipinta.

La rappresentazione delle figure si basa su un disegno preparatorio, con l'uso di una tecnica particolare che gioca sulla variazione dello spessore e del tono di colore: nelle parti in cui domina l'azzurro scuro si è prima tracciato un bordo spesso e marcato per delineare il corpo degli animali, mentre nei tratti di colore rosso i profili sono più delicati, accennati con una linea leggera e meno marcata.

Gli accostamenti cromatici riflettono il gusto per la policromia delle aristocrazie daune, visibile anche nelle contemporanee pitture parietali e nelle ceramiche (di Arpi e di Canosa).

 

VILLA DI FARAGOLA

La villa, che conobbe la fase di massima espansione tra il IV e il VI secolo, occupa un'area molto estesa presso il fiume Carapelle, distante 9 km da Herdonia (oggi Ordona) e 5 km da Ausculum (Ascoli Satriano), lungo il percorso della via Aurelia Aeclanensis (che collegava Herdonia ed Aeclanum, mettendo in comunicazione la via Appia e la via Traiana).

La villa, forse appartenente alla famiglia senatoria degli Scipioni Orfiti, era sorta sui resti di un insediamento daunio del IV-III secolo a.C. (con tracce risalenti ai secoli precedenti), di una villa di epoca romana (I-III secolo d.C.). La villa tardoantica ebbe due fasi principali: una relativa al III-IV secolo, caratterizzata da una pianta legata alla tradizione delle ville romane classiche, con un grande peristilio e un atrio, con numerosi vani disposti intorno; l'altra, databile al V-VI secolo, profondamente modificata, pur riutilizzando in parte vani e spazi della villa precedente, con grandi terme, una spettacolare sala da pranzo estiva (cenatio), numerosi ambienti di servizio e uno sviluppo in altezza, con ambienti residenziali posti al piano superiore, secondo un modello tipico della Tarda Antichità.

Il sito venne quindi occupato da un villaggio altomedievale (VII-VIII secolo), probabilmente identificabile con una curtis longobarda.

L'area, acquisita nel 1997 dal comune di Ascoli Satriano, è stata oggetto di scavi archeologici sistematici da parte dell'Università di Foggia a partire dal 2003. sotto la direzione di Giuliano Volpe e Maria Turchiano. Nel 2009 il sito è stato parzialmente aperto al pubblico (parco archeologico di Faragola), con la musealizzazione della sala dal pranzo estiva (cenatio). Negli anni successiva la sistemazione museale ha riguardato anche le terme e alcuni ambienti di servizio. Nella notte tra il 6 e il 7 settembre 2017 un incendio doloso ha distrutto l'intera copertura danneggiando buona parte delle strutture della villa e delle sue decorazioni.

 

ASCOLI SATRIANO

 

Della villa tardoantica sono stati rimessi in luce in particolare il grande settore termale e una lussuosa sala da pranzo (cenatio), oltre a vari ambienti di servizio, magazzini, cucine e anche una fornace per la produzione di laterizi.

A sud della cenatio erano posti alcuni vani utilizzati come magazzini e dispense, oltre ad una latrina. Altri vani al piano superiore erano raggiungibili mediante una scala di cui restano cospicui resti.

A nord della cenatio è stato rinvenuto un altro blocco di ambienti, con vari spazi di servizio al piano terra (cucine, magazzini) e verosimilmente residenze al primo piano, secondo un modello edilizio tipico dell'epoca tardoantica.

Ad alcune decine di metri dalla cenatio si collocava un edificio di grandi dimensioni, interpretabile forse come un horreum, un grande magazzino granario.

Molto importante anche la fase altomedievale, dopo la fine della villa, quando furono realizzati sia nuovi ambienti residenziali e strutture produttive (fornaci, vasche di decantazione dell'argilla, fosse per la fusione di metalli, ecc.), sia furono riutilizzati gli ambienti della precedente villa, e capanne lignee disposte nell'area della antica villa. La fase altomedievale si articolò di un due momenti con caratteri distinti, rispettivamente nel VII e nell'VIII secolo d.C. Sulla base di vari indizi, si ritiene che possa trattarsi di una azienda agricola (curtis) appartenente alle proprietà fiscali beneventane.


Piano delle Fosse del grano

Con le sue oltre 600 fosse, rappresenta l'ultimo esempio di una modalità di conservazione del grano tipica della Capitanata. Il primo documento che parla dell'esistenza delle fosse risale al 1225 ma solo nel 1581 si fa esplicito riferimento al piano antistante la chiesa di San Domenico.

La fossa (dal latino fovea) presenta una cavità a forma di campana ricavata nel terreno (chiamato carso, da carsico) sotto il livello stradale, al fine di conservare cereali, mandorle, fave e semi di lino. La capacità media si aggira intorno ai 500 quintali (anche se alcune arrivano addirittura a 1.100 quintali). Le pareti interne venivano tinteggiate a latte di calce, a cui oggi si preferisce il cemento come rivestimento, questo al fine di evitare il contatto diretto del prodotto con il terreno. Internamente sono rivestite in pietra come il pavimento o in mattoni. L'imbocco sfiora la superficie, ed è di forma circolare. Le dimensioni delle fosse seguivano misure standard, di solito avevano un profondità di 5 metri ed un diametro di 4,5 metri, l'imboccatura invece misurava 1,25 metri. Esternamente le Fosse presentano un cordolo in pietra locale (in dialetto andeïnë) rozzamente lavorata che ne delimita l'apertura e che la protegge dalle infiltrazioni di acqua piovana. Il colletto superiore della Fossa è costituito da quattro mattoni angolari (in terracotta o pietra) che delimitano l'imboccatura circolare della stessa (in dialetto appëdaturë). La Fossa è chiusa da assi di legno (in dialetto tavëlünë), a loro volta ricoperti da un cumulo di terra per far defluire l'acqua piovana. L'ultimo elemento tipico della Fossa è costituito da un cippo di pietra (in dialetto u tïtëlë) alto in media 90 cm, su cui venivano scolpite le iniziali del proprietario, e un progressivo numerico della Fossa. La funzione di quest'ultimo elemento, era favorire l'identificazione e la localizzazione della Fossa.

 

CERIGNOLA

 

In passato, il contenuto veniva riversato all'interno del silos attraverso una piccola apertura ad imbuto (detta angelo). Una volta praticato un foro nel cumulo di terra che ricopriva la fossa, questo veniva modellato con malta di terra ed acqua e rinforzato con alcune pietre. Avendo così irrobustito l'apertura, era possibile scaricare il grano preservando l'isolamento con il terreno. Successivamente, questo metodo fu sostituito da un cilindro cementizio industriale, corto e provvisto di coperchio. Attualmente si utilizza un ampio telone che ricopre interamente la fossa e che presenta un foro centrale attraverso cui far scivolare il prodotto. L'estrazione del frumento dalle fosse granarie necessitava di una vera e propria organizzazione di esperti operai, i cosiddetti sfossatori. Alla base dell'ingresso della fossa, venivano disposti tre o quattro pali fissati al terreno. Questi fungevano da sostegno alla cui estremità veniva montata un carrucola per le operazioni di carico del grano. Prima di poter scendere nella fossa, l'operaio provvedeva a sbattere un sacco contro le pareti della fossa, in modo da consentire l'ingresso dell'aria nella fossa stessa. Per essere sicuri che l'aria all'interno della fossa fosse sufficiente, veniva accesa una candela, ed in base alla persistenza della fiamma, si determinava la presenza di ossigeno. Il grano prelevato veniva misurato riempiendo un recipiente in legno detto tomolo, che deve il nome all'omonima misura agraria di capacità in uso nel sistema metrico borbonico, corrispondente a circa 45 litri. Infine veniva stoccato in sacchi.

 

 

 

 

Terra Vecchia

Si presenta come un tipico aggregato urbano medievale ad accerchiamento dalla forma circolare. È situato nella parte nord della città su una collina.

Cerignola si trova al crocevia di due importanti sistemi infrastrutturali: i tracciati dauni e romani ed i tratturi per la transumanza, tant'è che in epoca romana la città rappresentava già un insediamento di scambio. Ad avvalorare la tesi dell'origine romana del borgo vi è il suo impianto urbanistico, ricco di elementi di ortogonalità tipici dei centri del Medioevo sviluppatosi su agglomerati preesistenti. In epoca medievale il borgo, ridotto a sede di feudo, fu dotato di castellotorri e cinta muraria. Resti delle mura sono osservabili lungo via 13 Italiani e via Torrione. Attualmente invece risulta essere perimetrato da una serie di costruzioni che ne delimitano i confini. Il tessuto viario è disordinato e si sviluppa intorno ad un asse principale, via  Piazza Vecchia, che collega le due principali porte d'ingresso alla città (l'Arco della Piazza o Pignatelli e l'Arco di Carbutto  e in cui confluiscono numerose stradine strette e tortuose caratterizzate dall'assenza del marciapiede. La pavimentazione è ad acciottolato strutturato in forme geometriche riquadrate da lastre di pietra. Il borgo presenta una tipologia assortita di abitazioni: case ad un solo piano, i cosiddetti bassi composti da un solo vano e generalmente privi di finestre; gli iusi, ovvero abitazioni poste al disotto del piano stradale per circa 4 metri; i vignali o soprano elevati rispetto al piano stradale e a cui si accede attraverso una scalinata esterna, queste case erano destinate alle classi più abbienti e spesso erano arricchite da elementi architettonici quali: verande, lesene ed incorniciature architettoniche ed infine troviamo le case a più piani (Palazzo Matera, Palazzo Bruni, Palazzo Gala e il Palazzo della Chiesa) che ospitavano invece le famiglie nobili più influenti e risalenti circa al XV-XVI secolo. L'antico borgo ospita anche la vecchia cattedrale, la chiesa madre, che è anche il tempio più antico della città (XI-XIII secolo), che divenne sede vescovile nel XIX secolo


CERIGNOLA

Attualmente è sede della parrocchia di San Francesco d'Assisi. Sempre nel borgo troviamo, inoltre, la Chiesa di Sant'Agostino con annesso il convento (XV secolo), la Chiesa di San Leonardo (XV secolo) e la Chiesa di San Giuseppe o della Santissima Trinità o di Sant'Elena. Oltre alle numerose chiese ed alle diverse tipologie di palazzi, il borgo è caratterizzato da molte testimonianze epigrafiche: semplici date, attestazioni di proprietà e motti. Interessante è un'iscrizione su tufi che fa riferimento al terremoto del 1731. Proprio quest'ultimo causò notevoli danni all'intero centro storico, distruggendo buona parte degli edifici, tra cui il castello che fu semidistrutto. Nella seconda metà del '700 iniziò la fase di ricostruzione del borgo e si assistette ad un'ulteriore espansione della città al di fuori delle mura. La ricostruzione avvenne però in maniera del tutto caotica, con edifici privati dei piani superiori, distrutti dal terremoto, e con altri costruiti riciclando le macerie di altre abitazioni. Nell'Ottocento il borgo raggiunse la sua fisionomia definitiva, anche perché le espansioni della città non interessarono più il borgo, che anzi cominciò a trovarsi in posizione abbastanza decentrata rispetto all'abitato. Fortunatamente è possibile affermare che la parte più antica della città conserva quasi inalterata la sua fisionomia originaria, rappresentando di fatto un'importante testimonianza storico-culturale. Attualmente sono in atto lavori di ristrutturazione atti alla sua riqualificazione.

 

 

Torre Alemanna

E’ ubicato a 18 km da Cerignola, lungo la strada provinciale per Candela, al crocevia di due importanti vie di comunicazione ricadenti sul tracciato dei tratturi a servizio della transumanza. Attualmente è inglobato dalla frazione rurale denominata Torre Alemanna-Borgo Libertà, fondata nel 1951 da l’Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria di Puglia e Lucania.

Il nome di Torre Alemanna compare, come riferimento topografico, in un documento del "Codice diplomatico barlettano" del 1334. Nella delimitazione dei confini di una proprietà si fa riferimento ad una "viam qua itur a Turri de Alamagnis". In documenti più tardi, ma anche nella cartografia di epoca moderna, il luogo è spesso citato con il toponimo Torre de la Manna. Per essere già nota in quell'epoca significa che essa esisteva da tempo.

Va ricordato che, a breve distanza dalla Torre Alemanna, c'è il Monte Maggiore, luogo in cui si svolse nel 1041 la battaglia di Montemaggiore, con i Normanni ed i Longobardi che sconfissero i Bizantini.

L'appellativo di Alemanna rinvia inoltre ai suoi fondatori, i Cavalieri Teutonici, ai quali Federico II donò (come attestano documenti del XIII secolo) delle terre presso Corneto, antico borgo medievale (distrutto nel 1349, nel corso delle guerre dinastiche che videro opposti Giovanna I di Napoli e Carlo III di Napoli), i cui resti distano difatti poco più di un chilometro dal complesso. Il complesso di Torre Alemanna, è ritenuto dagli storici il più fiorente delle balie teutoniche in Puglia. Un centro talmente ricco (fra il XIV ed il XV secolo, possedeva oltre 2.800 ettari di terre) da consentire con la sua produzione zootecnica e cerealicola il sostentamento anche di San Leonardo di Siponto, da cui dipendeva, e degli altri insediamenti pugliesi aventi perlopiù valenza strategica e politica. L'intero possedimento fu nel 1483 ceduto dai Cavalieri alla Chiesa che, trasformandolo in Commendaconcistoriale, lo gestì per mezzo di procuratori. Qualche decennio dopo, nel 1525Leandro Alberti descrive il monumento come meta di pellegrinaggi da parte di ex prigionieri che vi portavano ex voto in onore di San Leonardo, ma al momento della visita il complesso appare in stato di abbandono ed a rischio di rovina. Appare molto probabile che in questo arco di tempo la comunità di Torre Alemanna visse una fase di transizione tale da determinarne un processo di degrado e trasformazione dell'originario assetto, così come si era stratificato nel corso del XIII e XIV secolo. Intorno al terzo quarto del XVI secolo si segnala l'attivismo del cardinale Niccolò Caetani di Sermoneta, che nel 1570 avvia i lavori di costruzione del "Palazzo dell'Abate”, nell'ala sud del complesso. Una visita pastorale del 1693 ci consegna l'immagine del complesso alla fine del XVII secolo insieme al manoscritto che descrive le destinazioni d'uso dei vari ambienti del complesso è conservata una stampa con la rappresentazione delle diverse strutture e relativa legenda descrittiva . Nuovi interventi si hanno all'epoca del cardinale Pasquale Acquaviva d'Aragona quando, in seguito all'evento sismico del 1731, il suo procuratore Diego Ingellis realizza nel 1750 la suggestiva loggia che collega il “Palazzo dell'Abate” alla torre e l'ingresso principale a sudest. Nel 1865 fu venduto come bene demaniale ed i successivi interventi di ristrutturazione sostanzialmente non muteranno l'immagine del corpo principale del complesso edilizio. Nell'ultimo dopoguerra il complesso masseriale ha subìto i maggiori danni, dovuti all'incuria, allo sconsiderato uso e, soprattutto, alla radicale trasformazione del sito. Negli anni cinquanta del secolo scorso, infatti, l’Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria di Puglia e Lucania (poi denominato prima ERSAP ed infine Settore riforma fondiaria - Ufficio ex ERSAP) fondò una nuova borgata denominata Borgo Libertà demolendo alcune parti del complesso masseriale. Del vecchio quadrilatero, che costituiva l'intera masseria sorta intorno alla Torre, oggi resta tuttavia visibile e ben conservata una parte degli edifici, essendo scomparsi totalmente solo alcuni corpi di fabbrica sul lato ovest e sul lato nord, rispettivamente corrispondenti alle antiche rimesse per le carrozze e al giardinetto, così come illustrato nella citata stampa di fine Seicento. Nel 1983 il complesso masseriale è stato sottoposto a regime di tutela con declaratoria di vincolo, quale bene monumentale. Nel 1988 partono i primi interventi di restauro e di consolidamento del solo nucleo centrale. Un secondo lotto di lavori dal 1997 al 2000, nonché le attività di ricerca condotte con importanti sinergie tra Enti ed Università (italiane, francesi e tedesche) nell'ambito del programma finanziato dalla Comunità Europea denominato "Cultura 2000", hanno iniziato a restituire al monumento gli antichi splendori. Torre Alemanna, con gli attuali lavori di restauro, si approssima a diventare Museo della ceramica e Centro internazionale di studi. Nel 2013 è stato uno dei 700 tesori artistici aperti al pubblico durante la XXVI Giornata FAI di Primavera (23 e 24 marzo).

 


CERIGNOLA

 

Torre Alemanna appare oggi come un complesso masseriale dotato, per l'appunto, di una torre d'avvistamento a pianta quadrangolare di circa 10 metri di lato e 24 di altezza e di una serie di corpi di fabbrica edificati nel corso dei secoli per ospitare numerose destinazioni d'uso (residenziale, produttiva e di culto) (Fig. 3). Il vano di piano terra della torre, la cui altezza si estende fino al livello del 1º piano del complesso, è coperto con volta a crociera (Fig. 4) costolonata poggiante su quattro colonnine con capitelli gotici "a crochet”. Esso, pregevolmente affrescato su tre lati e caratterizzato da un arco trionfale sulla parete ovest, è stato da sempre ritenuto una preesistente cappella, sulle cui mura, opportunamente raddoppiate, fu eretta la torre. La scoperta degli affreschi (Fig. 5-7), datati alla seconda metà del XIII secolo, avvenne nel corso dei primi lavori di restauro nel 1989. Con il prosieguo dei lavori (1997-2000), operando alcuni saggi conoscitivi all'interno dei muri, si è in realtà constatato che le modanature dell'arco trionfale (Fig. 8) svoltano nella muratura verso ovest rivelando che si tratta addirittura del presbiterio a pianta quadrata di una chiesa, probabilmente cistercense, la cui navata è oggi riconoscibile nella parte adiacente sul lato ovest. Inoltre, gli scavi archeologici operati nel 2003 (Fig. 9) nel presbiterio stesso hanno rivelato la preesistenza di un'ulteriore abside da relazionare ad una chiesa ancor più antica. Dunque è plausibile l'ipotesi che i Cavalieri, venuti in possesso dei terreni, abbiano eretto una torre sui resti di una chiesa edificandone, qualche decennio più tardi (XVI secolo), una nuova (oggi ancora esistente) dedicata prima a Santa Maria dei Teutonici, poi a San Leonardo.

 

Cerina (o Kerina, Kerine, Κερίνη in greco antico) era un'antica città preromana intitolata alla dea Cerere e ubicata nei pressi del fiume Ofanto, dove un tempo, lungo la via Traiana, si sviluppò la mansio Furfane.

 

 

 

CERINA

 

Nel 324 a.C., durante la guerra greco romana, fu distrutta dal re dell'EpiroAlessandro il Molosso; Gli abitanti, scampati alla distruzione, in un primo momento si spostarono nelle campagne circostanti (dando vita a numerosi borghi: Tressanti, Fontana-Fura, San Giovanni in Fonte) e successivamente si rifugiarono nei pressi della torre di guardia romana, dove costruirono (all'incirca nel 500 a.C.) il villaggio di Ceriniola (o Keriniola), corrispondente all'attuale Cerignola, ed il cui toponimo significavo proprio "piccola Cerina".

 

Argos Hippium

Arpi (anche chiamata Argyrippa o Argos Hippium, derivante dal greco Aργύριπποι, Άργος Ίπποι) era una città della antica Apulia, di cui restano scarse vestigia, anche se "nel sottosuolo sono presenti innumerevoli resti archeologici che se riportati alla luce potrebbero suscitare un nuovo impulso turistico per il territorio" (Marina Mazzei). Situata a 8 km a nord-est di Foggia la sua importanza e grandezza era dimostrata ancora al tempo di Strabone dall'ampiezza delle sue mura (ben 18 chilometri), per cui la città appariva, come a Canosa, una delle maggiori degli Italioti.

 

« Come il chicco del frumento occorre che cada e marcisca tra i solchi dei campi per dare a suo tempo una pingue spiga, e come la pianticella ha bisogno di trapianto per svilupparsi e stendere i suoi rami, così fu di Arpi, ché dalle sue rovine nacque Foggia, per cui questa "Nuova Arpi" ha ben ereditata la gloria della antica città madre. » (Sac. Michele di Gioia, da: "Maria S.S. dei Sette Veli" - 1964)

 

Il nome di Arpi risulta composto da Argos in memoria della patria lontana e con l'aggiunta di Hippium per qualificare l'eccellenza del luogo adatto per l'allevamento dei cavalli, tale nome divenne poi Argirippa ed infine Arpi dal greco "arpe" che vuol dire falce. Il nome Arpi, inoltre, potrebbe anche derivare da "arpane", come venivano chiamati gli armenti dei buoi allevati nella zona. Tale versione potrebbe essere la più probabile in quanto Arpi, presumibilmente ha avuto per stemmi il delfino, il cavallo, il cinghiale e il bue.

 

 

FOGGIA

 

Dopo la schiacciante vittoria a Canne (216 a.C.), Annibale raggiunse i primi importanti risultati politico-strategici. Alcuni centri cominciarono a abbandonare i Romani, come Campani, AtellaniCalatini, parte dell'Apulia, i Sanniti (ad esclusione dei Pentri), tutti i Bruzi, i Lucani, gli Uzentini e quasi tutto il litorale greco, i Tarentini, quelli di Metaponto, di Crotone, di Locri e tutti i Galli cisalpini, e poi Compsa, insieme agli Irpini. Non si arrese invece Neapolis, rimasta fedele a Roma.

Negli anni successivi Annibale si recò più volte in Apulia. Nel 215 a.C., dopo essere stato sconfitto a Nola, pose gli accampamenti invernali proprio nei pressi di Argos Hippium. Il console Quinto Fabio Massimo Verrucoso ordinò allora al console più giovane, Tiberio Sempronio Gracco, di condurre le sue legioni da Cuma a Lucera in Apulia, ed inviò il pretore Marco Valerio LevinoBrundisium con l'esercito che aveva con sé in precedenza a Lucera, incaricandolo di difendere le coste dell'agro salentino e sorvegliare i movimenti di Filippo V di Macedonia in vista di una possibile guerra con la Macedonia.

L'anno seguente (214 a.C.), Annibale partì da Argos Hippium per tornare in Campania, seguito da Tiberio Gracco, che mosse la sua armata da Luceria a Beneventum; intanto al il figlio di Fabio Massimo, il pretore Quinto Fabio, venne ordinato di partire per l'Apulia e sostituirvi Gracco. Annibale dopo aver passato l'inverno ad Arpi ritornò sul monte Tifata nel territorio di Capua.

Nel 194 a.C. Roma fece aspra vendetta sulle antiche città che le furono infedeli. Tra queste, vi fu Arpi alla quale fu tolta la libertà, furono abbattute le mura, furono negati l'approdo marittimo a Siponto, le monete proprie e ogni altro diritto: divenne quindi un'umile colonia romana.

Posta, come poi Foggia, nel cuore del Tavoliere delle Puglie, vi ebbe preponderante importanza

La sua alleanza con Roma contro i Sanniti determinò l'esito della lotta tra Oschi e Latini nel primato d'Italia.

 

Anfiteatro Romano di Lucera

L'Anfiteatro romano di Lucera è un anfiteatro di epoca romana situato nella periferia est di Lucera. Risale all'età augustea ed è fra i più antichi dell'Italia meridionale. Per le sue notevoli dimensioni, risulta essere la più importante testimonianza romana di tutta la Puglia.

E’ straordinariamente conservato, realizzato per un pubblico numeroso, con una capienza tra i 16.000 e i 18.000 spettatori.

Dopo la conquista romana nel 314 a.C. Luceria divenne prima colonia di diritto latino e in seguito municipium. Sotto Augusto ebbe il suo periodo di maggior splendore che si manifesta anche nell'erezione di numerosi edifici pubblici e nella trasformazione dell'assetto urbano. Nella parte orientale della città il magistrato lucerino Marco Vecilio Campo, duoviro iure dicundo, prefetto del fabri e tribuno dei militi, fece costruire in corrispondenza di una depressione naturale del terreno, a sue spese e in un'area di sua proprietà, un grande anfiteatro in onore di Augusto e della colonia di Lucera, come attesta l'iscrizione posta sugli architravi dei portali di ingresso.

L'anfiteatro fu probabilmente danneggiato a seguito della conquista della città da parte dell'imperatore Costante II nel 663. In seguito al suo abbandono venne utilizzato come cava di pietre e si interrò progressivamente.

Nel 1932 alcuni scavi portarono alla luce i primi significativi resti dell'anfiteatro romano. I lavori di scavo e di restauro delle strutture furono diretti prima da Quintino Quagliati e quindi da Renato Bartoccini e terminarono nel 1945.

Dal 2006 al 2009 l'Area Archeologica è stata oggetto di un ulteriore intervento di recupero e restauro, realizzato con finanziamenti dell'A.P.Q. Regione Puglia “Beni culturali Sistema delle aree Archeologiche”. Sono stati realizzati nel settore curvo occidentale degli spalti gradonati, per una capienza di circa mille posti a sedere, per poter permettere all'Anfiteatro di ospitare eventi musicali, teatrali e culturali. Considerando la grandezza dell'Anfiteatro, le gradinate meriterebbero di essere ampliate su tutta la struttura in modo da ridarle un assetto uniforme, tornando ad accogliere i 16.000-18.000 spettatori che al tempo dei Romani riuscivano ad assistere agli spettacoli

 

LUCERA

 

L'anfiteatro poteva ospitare tra i 16.000 e i 18.000 spettatori; ha pianta ellittica e dimensioni di 126,80m. X 94,5m. circa.

L'accesso era costituito da due portali inquadrati da colonne di ordine ionico, collocati sull'asse maggiore in direzione della città e in direzione di Foggia. Sull'architrave dei portali l'iscrizione ricorda la costruzione dell'anfiteatro da parte del magistrato locale Marco Vicilio Campo. Sull'asse minore si aprivano altri due accessi.

L'arena misura 75,20m. X 43,20m. ed è delimitata da un canale di raccolta delle acque e da un podio nel quale si aprono quattro accessi all'arena. Al di sotto dell'arena è scavata una lunga galleria di servizio aperta per tre fosse, dove confluivano inoltre le acque piovane dai canali di raccolta. Nei pressi dell'anfiteatro sorgevano la palestra degli atleti, alcuni edifici pubblici e un'infermeria.

 

 

Coppa Nevigata

La frequentazione umana sul sito, situato ai margini della costa, con facile accesso al mare e numerose risorse naturali, risale al Neolitico, ossia intorno al 6000 a.C. Nell'età del Bronzo - intorno al 1750 a.C. - si sviluppa un insediamento notevole, che vanta anche contatti con la civiltà minoica: si praticava ampiamente l'estrazione della porpora dai murici e la spremitura delle olive, dimostrando così l'antichissima tradizione culturale legata all'olio d'oliva in Puglia. Alcune aree prossime alle fortificazioni e alla riva della laguna furono adibite ad attività collettive, connesse sia alla conservazione e al trattamento dei cereali, che all'estrazione della porpora; in seguito queste attività si spostarono all'interno dell'abitato. L'insediamento era provvisto di mura difensive in pietrame a secco.

Attualmente il sito è scavato periodicamente da una missione della Sapienza di Roma, sotto la direzione di Alberto Cazzella.

 

MANFREDONIA

Parco archeologico delle Basiliche di Siponto

Comunemente conosciuta come basilica di Siponto era l'antica cattedrale di Siponto, eretta nel 1977 a basilica minore dal cardinale Corrado Ursi quale rappresentante di papa Paolo VI. La basilica è dedicata a Maria Santissima di Siponto.

La prima data documentata è quella del 1117, quando la chiesa venne solennemente consacrata e ci fu la reposizione delle reliquie di san Lorenzo Maiorano sotto l'altare maggiore; si pensa che in quell'anno sia avvenuto il passaggio di consegne tra la nuova chiesa (questa) e la vecchia basilica paleocristiana (già basilica pagana), ridotta oggi a soli ruderi di interesse archeologico. La chiesa superiore sorgeva su quella inferiore, databile all'alto medioevo, costruita con i ruderi della vecchia caduta dopo un terremoto.

Per secoli è stata custodita l'icona di Maria Santissima di Siponto, databile all'VIII secolo e custodita attualmente nella cattedrale di Manfredonia per questioni di sicurezza; come anche la statua lignea detta la Sipontina o Madonna dagli occhi sbarrati del VI secolo, in legno policromo di carrubo d'origine bizantina, che fu la prima Madonna che si venerò a Siponto.

 

MANFREDONIA

Telefono: +39 0884581844

 

L'edificio molto singolare con forma a pianta quadrata, con due chiese indipendenti di cui una interrata, la cripta, due absidi a vista poste sulle pareti sud e est, un portale monumentale rivolto ad ovest verso la strada che entra in Manfredonia, databile per le sue caratteristiche all'età medievale. La piccola campanella è stata posta nel Settecento, mentre al centro della facciata era visibile lo stemma arcivescovile del vescovo di Manfredonia Ginnasio (1586-1607) che restaurò l'edificio. L'interno della chiesa è databile all'XI secolo. La chiesa è un gioiello dell'arte romanico pugliese, pur mostrando influenze islamiche e armene.

Nel Marzo 2016 è stata inaugurata l'opera d'arte intitolata "Dove l'arte ricostruisce il tempo" dell'artista Edoardo Tresoldi. Una ricostruzione dell`antica basilica paleocristiana, alta 14 metri e pesante 7 tonnellate, fa parte di un intervento complessivo di modernizzazione del sito archeologico di 3,5 milioni di euro di fondi pubblici. Il sito archeologico a seguito dell'intervento ha registrato un sostanziale incremento di visitatori.

 

Grotta Scaloria


La cavità Grotta Scaloria, importante sito archeologico ai piedi del Gargano, nella immediata periferia Nord di Manfredonia, in contrada Scaloria costituisce con la vicina Occhiopinto un unico complesso. Scoperta casualmente nel 1932 in occasione della costruzione dell'Acquedotto Pugliese, fu esplorata, all'epoca, nella sola parte alta da Quintino Quagliati. Nel 1964 un gruppo di giovani studenti di Manfredonia, casualmente scoprirono la parte bassa e più ampia della grotta Scaloria, rinvenendo un centinaio di vasi neolitici, dei laghetti ricoperti di calcite, tracce di fuochi ed uno scheletro di un primitivo con i femori spezzati, forse testimonianza di una tragedia speleologica di 6000 anni fa. Nel 1967 si attestò un rituale religioso collegato al culto delle acque praticato in un particolare momento del Neolitico intorno alla metà del IV millennio a.C. Tale rituale prevedeva la deposizione di vasi in prossimità di grandi stalattiti spezzate artificialmente o sui tronconi di esse con funzione di raccolta delle acque di stillicidio.

 

SP57, MANFREDONIA

 

Nel 1968 proseguirono le esplorazioni, e fu trovato un passaggio che metteva in comunicazione le due grotte: Scaloria e Occhiopinto. Furono rilevati lungo tale tragitto ulteriori dodici vasi posti anch'essi sotto lo stillicidio. Gli scavi del 1978-79 condotti dall'Università di Genova, dalla University of Southern Mississippi e dalla University of California, nell'ambito del programma di ricerche sul Neolitico del Sud Est dell'Italia coordinato da Santo Tinè e Marija Gimbutas, rivelarono una lunga frequentazione della parte alta della grotta dal Paleolitico Superiore fino alla fine del Neolitico.

 

 

 

 

 

Siponto

E’ una frazione/quartiere di Manfredonia in Puglia, distante circa 2 km dal centro storico manfredoniano e oggi inglobata nell'area urbana della città di cui risulta essere una zona residenziale oltre che quella più vicina all'omonimo parco archeologico, tra i maggiori del Mezzogiorno d'Italia. Fu un'antica città e porto dell'Apulia. Siponto, divenuta poi Manfredonia, è una delle più antiche città italiane e fu una delle più attive colonie romane. Il sito archeologico, di cui solo una parte è stata oggetto di scavi, è di grandissimo pregio e valore e rappresenta oggi una delle aree archeologiche italiane, risalenti alla fase romana, di maggior interesse per ricercatori e visitatori. Infatti la città era un centro importante non solo per quel che riguarda i commerci ma anche per la posizione strategica di cui godeva.

La località è un rinomato centro balneare conosciuto come Lido di Siponto.

La piana a sud del Gargano era abitata sin da epoca neolitica. La grotta Scaloria - Occhiopinto fu frequentata attorno alla metà del IV millennio a.C. per scopi cultuali e come necropoli. Sono stati rinvenuti contenitori di ceramica dipinta collocati su tronconi di stalagmiti spezzate e con all'interno stalattiti concrezionate per lo stillicidio delle acque ricadenti dalla volta.

L'insediamento di Coppa Nevigata sorge nel VI millenio a.C. su uno dei dossi ai margini di un'antica laguna costiera, odierna località Cupola-Beccarini. Della prima metà del II millennio a.C. si hanno tracce di una capanna a margini curvilinei, che in epoca immediatamente successiva lasciò posto ad un grande muro difensivo, largo metri 5,5, nel quale si aveva un accesso realizzato con blocchi megalitici. Più tardi la fortificazione diventa più complessa con stretti passaggi, postierle e torri. Nel sito si ritrova ceramica micenea, importata dall'Egeo che poi veniva rirpodotta anche in loco. E murici frantumati per estrarre la porpora.

Dal 1500 circa a.C. fino al IV secolo a.C. con l'arrivo degli Iapigi dalle regioni dell'Illiria, nella penisola Balcanica, fiorisce e si sviluppa, nella Puglia settentrionale, tra i fiumi Ofanto e Fortore, la civiltà Daunia. Nella Piana di Siponto furono ritrovate centinaia di stele daunie, monumenti antropomorfi istoriati in pietra del VII e VI secolo a.C. Secondo la leggenda, Siponto (e altri centri Dauni) fu fondata dall'eroe omerico Diomede che sposò la figlia del re DaunoEvippe.

Nel 335 a.C. fu conquistata assieme ad altre città italiche da Alessandro Ire dell'Epiro (e zio di Alessandro Magno), chiamato in aiuto dalla città magno-greca Taranto. L'occupazione avrà accelerato il processo di ellenizzazione.

Durante le Guerre puniche i Dauni e altri popoli italici si schierano con i Romani, ma passano (a esclusione di Lucera) dalla parte dei Cartaginesi dopo la sconfitta alla battaglia di Canne nel 216 a.C.

 

MANFREDONIA

 

Periodo Romano

Nel 194 a.C. Roma fece aspra vendetta sulle antiche città che le furono infedeli. Tra queste, vi fu Arpi alla quale fu tolta la libertà, furono abbattute le mura, le monete proprie e ogni altro diritto, fu confiscato il territorio (e l'approdo marittimo) di Siponto. Il centro dauno diventò colonia di cittadini romani. A seguito del progressivo impaludamento della laguna e la conseguente insalubrità l'insediamento fu spostato più a nord nell'attuale Santa Maria di Siponto. Otto anni dopo fu però necessario l'invio di un nuovo contingente di coloni, perché la città era già spopolata, a causa della malaria o della scarsa appetibilità di tale territorio causata dalla siccità.

I primi cristiani perseguitati si rifugiano sottoterra per pregare negli Ipogei di Siponto. Nel IV secolo con l'Editto di Milano il cristianesimo diviene la religione ufficiale dell'impero. Secondo una leggenda, Siponto diventò una delle prime sedi vescovili d'Italia, il suo primo vescovo Giustino di Siponto sarebbe stato nominato direttamente da San Pietro. Il primo vescovo di cui si abbia notizia certa fu Felice I, il quale partecipò al Sinodo romano del 465. A lui viene attribuita la prima chiesa paleocristiana ad una sola navata con mosaici pavimentali a tessere bianche e nere, situata accanto all'odierna Basilica di Santa Maria Maggiore.

 

Medioevo

Nel V-VI secolo il santo vescovo Lorenzo Maiorano amplia la chiesa a tre navate a forma di croce latina, ornata di pavimento musivo policromo. I resti di entrambi i mosaici pavimentali del V e VI secolo sono esposti sulla parete sinistra della Basilica di Santa Maria Maggiore. Costruisce anche il Battistero e la Basilica dei Santi Protomariri Agata e Stefano (oggi chiamato Ipogeo Scoppa I). Sotto il suo episcopato inizia il culto di San Michele nell'area dell'odierno Santuario. Avrebbe fermato la distruzione di Siponto assediata dall'ostrogoto Totila.

Nella metà del VI secolo l'area viene invasa dai Longobardi, che si scontrano più volte con i Bizantini per il possesso della Puglia. Siponto divenne sede di un Gastaldo.

Durante il IX secolo Siponto fu occupata per alcuni anni dai Saraceni.

Negli ultimi decenni del X secolo la Puglia torna in mano ai Bizantini. Dal 1042 i Normanni la eressero a sede di una delle loro dodici contee della Contea di Puglia.

Nell'XI secolo Siponto dové conoscere una rapida decadenza, probabilmente a causa dell'interramento del porto, e della presenza della malaria dovuta alle paludi circostanti la cittá.

Siponto era sugli itinerari di pellegrinaggi. Fuori le mura, alla fine dell'XI secolo o inizi del XII viene edificata l'abbazia di San Leonardo. Nel 1117 viene consacrata l'attuale chiesa romanica di Santa Maria.

Nel 1223 la città fu scossa da un violento terremoto. Un altro terremoto (e forse maremoto) la ridusse in rovine nel 1255Manfredi di Sicilia stabilì allora che la città fosse ricostruita in una più a nord, sulla costa rocciosa. Nacque così Manfredonia. Da ciò il nome di manfredoniano o sipontino per gli abitanti della città.

 

Periodo Moderno Tra il 1930 e il 1940 il Consorzio di Bonifica della Capitanata avviò la bonifica delle paludi sipontine, trasformandole in campi coltivabili, parte di questi terreni furono adibiti alla costruzione di villette residenziali; nacque così il lido di Siponto, che con il passare degli anni sarebbe divenuto una stazione turistico-balneare, frequentata soprattutto dagli abitanti delle città pugliesi della Capitanata.

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Castello di Monte Sant’Angelo

Le prime testimonianze sulla struttura del castello di Monte Sant'Angelo, sito nell'omonimo paese in provincia di Foggia, risalgono ai tempi del vescovo Orso Ivescovo di Benevento e di Siponto che avrebbe fatto edificare, negli anni 837-838, il castellum de Monte Gargano, con successive modificazioni e rifacimenti.

Fino al IX secolo non c'era il castello, ma solo un castrum bizantino, poi il castello fu dimora di principi della signoria dell'Honor Sancti Angeli: fu di Rainulfo (conte di Aversa) e poi di Roberto il Guiscardo che, dopo aver cinto la città di mura, nell'XI secolo fece riedificare la parte più antica, la torre dei Giganti (di forma pentagonale, alta 18 metri e con mura spesse 3 metri). La struttura venne assumendo importanza nella difesa del Gargano uno dei tre Castra exempta (privilegiati). Ospitò Federico II di Svevia e la sua prediletta, la contessa Bianca Lancia di Torino, e per questo presenta opere architettoniche in stile federiciano, imponenti, ma raffinate come testimonia la sala duecentesca con un pilastro centrale e volte ogivali ("la sala del Tesoro").

Sotto la dominazione normanna furono edificate la torre dei Giganti e la torre Quadra, mentre Federico II fece costruire la cosiddetta sala del Tesoro.

L'attuale fortificazione evidenzia soprattutto l'influenza degli Aragonesi che, per difendersi dai nemici, realizzarono il torrione a forma di mandorla e il fossato che precede il portale di ingresso.

Gli Angioini curarono assai il maniero, ma di esso si servirono come prigione di stato: famose sono le detenzioni di Filippa d'Antiochia (principessa sveva) che vi morì nel 1273, e quella della regina Giovanna I di Napoli (forse ivi assassinata) e le cui spoglie sono presumibilmente a Monte Sant'Angelo, nella chiesa di San Francesco.

Divenne anche dimora di principi durazzeschi: infatti qui nacque Carlo III di Durazzo, poi re di Napoli e d'Ungheria.

Nel XV secolo, tra il 1491 e il 1497, con l'invenzione delle armi da fuoco, furono indispensabili interventi sulla struttura che venne affidata a Francesco di Giorgio Martini (ingegnere militare del XV sec), ed assunse l'aspetto che conserva tuttora.

Nel 1552, sotto approvazione del Re Carlo IV, il feudo ed il castello furono acquistati dalla Famiglia Serra Grimaldi, la quale ne assunse i pieni diritti feudali. Dal 1552 fino alla fine del XVIII secolo, altre famiglie acquisirono potestà del castello e annesso territorio feudale, (sotto rapporti di vassallaggio) tra le quali gli Arcella ed i Vischi.

Il castello fu ceduto nel 1802 al Municipio di Monte Sant'angelo che ne assunse definitiva proprietà nel 1810.

Nell'ultimo secolo il castello di Monte Sant'Angelo è stato oggetto di diversi interventi di restauro.

 

 

 

MONTE SANT’ANGELO

Telefono: +39 0884562062

 

Esso è situato nella parte alta del paese.

La fortezza risale alla prima metà del IX secolo, quando Orso I, vescovo di Benevento, fece edificare, tra l'837 e l'838, un castrum bizantino, contribuendo così al venire ad esistenza del castellum de Monte Gargano. In seguito i principi dell'Honor Montis Sancti Angeli fecero costruire la cosiddetta torre dei Giganti, una maestosa torre pentagonale alta 18 metri e con mura spesse 3 metri. Il castello era fornito di alcune zone residenziali in cui abitavano il capitaneus, i funzionari e la guarnigione armata; ma anche di scuderie, magazzini, cisterne, mulino, forno, falegnameria, cappella, uffici amministrativi. Non mancavano locali destinati a carcere: un'orrida prigione è situata nei sotterranei della torre dei Giganti. Di quell'epoca è ancora ben conservata una sala duecentesca con un grande pilastro centrale e volte ogivali, comunemente detta sala del Tesoro.

Con il passare del tempo il castello fu potenziato con due torri tronco-coniche, dal bastione orientale e da un sistema di cortine in muratura dotate di feritoie. In origine poi il castello era difeso da una muraglia, di cui non rimangono che i ruderi, e da un fossato valicabile per mezzo di un ponte levatoio, poi sostituito da uno fisso sostenuto da due archi. Alla costruzione si accede tramite un portale, il quale è preceduto dal ponte a due archi collocato attraverso il fossato che anticamente circondava la fortezza. Entrando si incontra il posto di guardia posizionato sulla destra, e un ampio locale in cui si trovano le scuderie e il deposito delle munizioni. Sulla sinistra si aprono due porte: attraverso la prima si raggiunge l'esterno del castello, attraverso la seconda una scala che conduce alla sommità del sovrastante Torrione a carena.

Si accede quindi al vestibolo, costituito da un cortile lungo 21 metri e largo più di 4 metri, che immette nell'ampia corte interna, limitata dagli spalti che difendevano il fossato e da due torri cilindriche, fra le quali si apre il portale del corpo centrale del castello.

Di qui una scala sale ai piani superiori, dove si può visitare la sala del Tesoro: un ampio ambiente illuminato da un'unica finestra, con soffitto a volte sorretta da un massiccio pilastro centrale. Da questa scala, che doveva essere adibita alle feste e ai convivi, si accede da un lato agli appartamenti del castellano, dall'altro a quelli dei cortigiani.

 

 

ORARIO DI APERTURA:

Dal Lunedì al Sabato dalle ore 09:00 alle ore 13:00 e dalle ore 14:30 alle ore 18:00;

Domenica chiuso

Grotta Pagliacci

Grotta Paglicci è una grotta situata in località Paglicci (Rignano Garganico).

Giacimento risalente al Paleolitico (inferiore, medio e superiore) e ricca di graffiti, rudimentali pitture parietali e impronte di mani, in essa sono stati scoperti più di 45.000 reperti, quasi tutti conservati presso gli archivi della Soprintendenza archeologica di Taranto e nella mostra-museo di Rignano Garganico. Molto simile alla grotta Romanelli in pitture e graffiti, è uno dei siti di interesse archeologico di maggior rilievo in Italia.

Nella grotta sono state rinvenute anche tre sepolture e numerosi resti umani singoli, risalenti al periodo Gravettiano ed Epigravettiano. Si è ormai concordi nel ritenere i resti di Paglicci appartenenti all'uomo di Cro-Magnon.

 

PAGLIACCI

Il 10 luglio 2006 si è scoperto che la grotta ha subìto gravi danni a causa di atti vandalici compiuti da ignoti. Nel luglio del 2008 si è invece scoperto casualmente il distaccamento di una parte della parete esterna, che sta mettendo a rischio l'intera grotta.

L'Università degli studi di Siena ha chiesto formalmente una maggiore tutela, poiché è stata danneggiata la parte più importante della grotta. Inoltre, è stato danneggiato ed estirpato il ponteggio di ferro che permetteva agli archeologi di tutt'Italia e del mondo di camminare sopra senza rovinare il suolo della grotta e suoi preziosi contenuti e che permetteva di arrivare all'atrio della grotta.

 

 

 

Sculture Litiche del Romandato

Le sculture litiche del Romandato sono numerose sculture litiche ritrovate nei pressi del torrente Romandato (o Romondato), nel comune di Rodi Garganico in Puglia, risalenti al Paleolitico inferiore che, sul Gargano, risulta diviso in filoni culturali principali: Clactoniano, con industrie su scheggia, e Acheulano, quando appaiono i manufatti bifacciali, principalmente sculture litiche tra cui quelle del Romandato. Lo studio dei manufatti litici sotto un aspetto fisico, poi, ha permesso di distinguere all'interno del Clactoniano, altre due fasi

Prima Fase, la più antica, che comprende schegge robuste, grandi nuclei discoidali e strumenti du ciottoli, con forti segni di trasporto detti fluitazione.

Protovalloisiano, più recente ed evoluta e così definita perché anticipa la tecnica Levallois, che comprende schegge più piccole e regolari che spesso assumono la forma lamiforme.

 

 

 

 

 

 

 

 

RODI GARGANICO 

L'Uomo di Romondato

Una di queste sculture litiche è l'Uomo di Romondato. Si tratta di una scultura in selce che raffigura una testa umana con bocca spalancata, priva di collo e fronte.

È alta 23,5 cm, lunga 29 cm, larga 18,5 cm e pesa 11,5 kg.

Sul fondo della bocca sono presenti incrostazioni di molluschi che indicano un'antica permanenza in mare.

La scultura risulta essere lievemente fluitata per il rotolamento alluvionale e per le onde marine, anche se il tutto non è stato deturpante ai fini della distruzione delle tracce di lavorazione. Prima della curva della calotta cranica, infatti, sono ancora visibili due asportazioni, che formano una "V" allargata, che potrebbero essere state la raffigurazione degli occhi. 

Altri reperti

Reperto 1 Scultura litica antropomorfa bifronte risalente al periodo di transizione tra Olduvaiano e il Clactoniano antico ricavata da un nodulo di selce che raffigura due teste unite per la nuca ma di diverse dimensioni.

Reperto 2 Si tratta di una scultura risalente al periodo compreso tra l'Olduvaiano e il Clactoniano antico ricavata da un nodulo di selce che raffigura due teste unite per la nuca che guardano in direzioni opposte.

 

Necropoli La Salata

La necropoli "La Salata" rappresenta il complesso cimiteriale di epoca paleocristiana col maggiore sviluppo del Gargano. Costruita su un costone di falesia di circa 30 metri, lungo la spiaggia nel comune di Vieste, è compresa nel Parco nazionale del Gargano.

 

 

SAN NICANDRO GARGANICO

Sant'Annèa (o Santannèa) è una località che

prende il nome da un'antica ed estesa villa romana situata alle porte del Gargano, su un'altura elevata meno di 100 m s.l.m. a circa 3 km a Sud del Lago di Lesina.

Fondata probabilmente nella tarda età repubblicana, si sviluppò notevolmente nel periodo imperiale, soprattutto verso il III-IV secolo d.C.

Ne restano pochi ruderi, visibili attraverso murature emergenti costruite in opus reticulatumopus listatumopus incertum.

Il fondo della villa rustica doveva svilupparsi per molte decine di ettari a giudicare dalla estensione dei fabbricati di pertinenza, che ne testimoniano verosimilmente l'importanza socio-economica locale.

SAN NICANDRO GARGANICO

 

Con molta probabilità fu definitivamente abbandonata negli ultimi secoli del I millennio d.C. La tradizione locale la tramanda come luogo i cui abitanti fuggiaschi, a seguito di scorrerie nemiche, si spostarono in una zona maggiormente difendibile fondando San Nicandro Garganico, nel cui territorio comunale tuttora insiste.

 

Terra Vecchia

La Terra Vecchia è il nucleo più antico della città di Cerignola, risalente con tutta probabilità all'epoca romana. Si presenta come un tipico aggregato urbano medievale ad accerchiamento dalla forma circolare. È situato nella parte nord della città su una collina.

Cerignola si trova al crocevia di due importanti sistemi infrastrutturali: i tracciati dauni e romani ed i tratturi per la transumanza, tant'è che in epoca romana la città rappresentava già un insediamento di scambio. Ad avvalorare la tesi dell'origine romana del borgo vi è il suo impianto urbanistico, ricco di elementi di ortogonalità tipici dei centri del Medioevo sviluppatosi su agglomerati preesistenti. In epoca medievale il borgo, ridotto a sede di feudo, fu dotato di castellotorri e cinta muraria. Resti delle mura sono osservabili lungo via 13 Italiani e via Torrione. Attualmente invece risulta essere perimetrato da una serie di costruzioni che ne delimitano i confini. Il tessuto viario è disordinato e si sviluppa intorno ad un asse principale, via Piazza Vecchia, che collega le due principali porte d'ingresso alla città (l'Arco della Piazza o Pignatelli e l'Arco di Carbutto ) e in cui confluiscono numerose stradine strette e tortuose caratterizzate dall'assenza del marciapiede. La pavimentazione è ad acciottolato strutturato in forme geometriche riquadrate da lastre di pietra. Il borgo presenta una tipologia assortita di abitazioni: case ad un solo piano, i cosiddetti bassi , composti da un solo vano e generalmente privi di finestre; gli iusi, ovvero abitazioni poste al disotto del piano stradale per circa 4 metri; i vignali o soprano elevati rispetto al piano stradale e a cui si accede attraverso una scalinata esterna, queste case erano destinate alle classi più abbienti e spesso erano arricchite da elementi architettonici quali: verande, lesene ed incorniciature architettoniche ed infine troviamo le case a più piani (Palazzo Matera, Palazzo Bruni, Palazzo Gala e il Palazzo della Chiesa) che ospitavano invece le famiglie nobili più influenti e risalenti circa al XV-XVI secolo. L'antico borgo ospita anche la vecchia cattedrale, la chiesa madre, che è anche il tempio più antico della città (XI-XIII secolo), che divenne sede vescovile nel XIX secolo. Attualmente è sede della parrocchia di San Francesco d'Assisi. Sempre nel borgo troviamo, inoltre, la Chiesa di Sant'Agostino con annesso il convento (XV secolo), la Chiesa di San Leonardo (XV secolo) e la Chiesa di San Giuseppe o della Santissima Trinità o di Sant'Elena. Oltre alle numerose chiese ed alle diverse tipologie di palazzi, il borgo è caratterizzato da molte testimonianze epigrafiche: semplici date, attestazioni di proprietà e motti.

VIESTE

Interessante è un'iscrizione su tufi che fa riferimento al terremoto del 1731. Proprio quest'ultimo causò notevoli danni all'intero centro storico, distruggendo buona parte degli edifici, tra cui il castello che fu semidistrutto. Nella seconda metà del '700 iniziò la fase di ricostruzione del borgo e si assistette ad un'ulteriore espansione della città al di fuori delle mura. La ricostruzione avvenne però in maniera del tutto caotica, con edifici privati dei piani superiori, distrutti dal terremoto, e con altri costruiti riciclando le macerie di altre abitazioni. Nell'Ottocento il borgo raggiunse la sua fisionomia definitiva, anche perché le espansioni della città non interessarono più il borgo, che anzi cominciò a trovarsi in posizione abbastanza decentrata rispetto all'abitato. Fortunatamente è possibile affermare che la parte più antica della città conserva quasi inalterata la sua fisionomia originaria, rappresentando di fatto un'importante testimonianza storico-culturale. Attualmente sono in atto lavori di ristrutturazione atti alla sua riqualificazione.


Siti Archeologici della Provincia di Lecce

Quattro Macine

Le Quattro macine (Giuggianello) è un casale medievale dell'antica Terra d'Otranto attestato per la prima volta in un diploma del 1219 di Federico II, a favore dell'arcidiocesi di Otranto. Tuttavia datazioni al C14 hanno attestato che il villaggio esisteva sin dall'VIII sec.

Nell'area sono state messe in evidenza dagli scavi archeologici condotti dall'Università del Salento (allora di Lecce), due chiese, una delle quali da riferire probabilmente al X-XI sec. di probabile proprietà nobiliare, in quanto nella zona absidale è stata rinvenuta una sepoltura. Da riferire al XIII sec. è un restauro dell'edificio religioso, qui sono stati rinvenuti oggetti liturgici tipici del rito greco-ortodosso area in cui ricadeva chiaramente tale edificio religioso: Due cucchiaini ed un coltello a forma di piccola lancia, per tagliare il pane eucaristico, simbolo del corpo di Cristo. Da riferire invece al periodo normanno (XI sec.) una seconda chiesa a due absidi adibita anche alle sepolture e in utilizzo fino all'età angioina. Qui sono stati messi in luce i resti di 75 individui. Il casale come accade anche in altri casali della zona viene abbandonato nel corso del XV sec. Nel sito di Quattro macine è documentato un attacco probabilmente avvenuto da parte dei saraceni nel corso del X sec; infatti qui è stata rinvenuta una punta di freccia saracena, che offre paragoni anche con analoghi rinvenimenti avvenuti al Monastero di San Vincenzo al Volturno. La freccia è allungata e affusolata di tipo molto differenti rispetto alle frecce occidentali, il tipo di freccia saracena è particolarmente adatto all'utilizzo del piccolo arco composito tipico delle popolazioni di tipo nomade e anche dei saraceni. Quattro Macine non scompare con il casale infatti dopo il XV sec. si sviluppa intorno ad un torrione una masseria che cesserà la sua attività nella seconda metà del 900'.

 

GIUGGIANELLO


Anfiteatro Romano di Lecce

L'anfiteatro romano di Lecce è un monumento di epoca romana situato nella centralissima piazza Sant'Oronzo.Risale all'età augustea.

L'anfiteatro romano, insieme al teatro, è il monumento più espressivo dell'importanza raggiunta da Lupiae, l'antenata romana di Lecce, tra il I e il II secolo d.C.

La datazione del monumento è ancora oggetto di discussione e oscilla tra l'età augustea e quella traiano-adrianea.

Il monumento venne scoperto durante i lavori di costruzione del palazzo della Banca d'Italia, effettuati nei primi anni del '900. Le operazioni di scavo per riportare alla luce i resti dell'anfiteatro iniziarono quasi subito, grazie alla volontà dell'archeologo salentino Cosimo De Giorgi e si protrassero sino al 1940.

Attualmente è possibile ammirare solo un terzo dell'intera struttura, in quanto il resto rimane ancora nascosto nel sottosuolo di piazza Sant'Oronzo dove si ergono alcuni edifici e la chiesa di Santa Maria della Grazia.

 

 

 

 

 

 

LECCE

 

L'anfiteatro misurava all'esterno 102 x 83 m, con l'arena di 53 x 34 m, e poteva contenere circa 25.000 spettatori.

Del monumento, realizzato in parte direttamente nella roccia e in parte costruito su arcate in opera quadrata, rimangono allo scoperto, oltre ad una parte dell'arena ellittica, intorno alla quale si sviluppano le gradinate dell'ordine inferiore, due corridoi anulari, uno che corre sotto le gradinate, l'altro, esterno, porticato, cui appartengono i numerosi e robusti pilastri, sui quali era imposto l'ordine superiore scandito, al pari di altri similari monumenti, dal Colosseo all'Arena di Verona, in una galleria di fornici.

L'arena, nella quale si tengono spettacoli teatrali e rappresentazioni sceniche di autori antichi e moderni, era divisa dalla cavea da un alto muro che era ornato da un parapetto (podium) adorno di rilievi marmorei a bauletto figuranti scene di combattimento tra uomini ed animali. Anche nel muro di divisione tra l'arena e la cavea si aprivano diversi passaggi di comunicazione col corridoio centrale ed un più angusto corridoio, scavato immediatamente dietro l'arena, era adibito ai servizi del monumento.

Ipogeo Palmieri

L'Ipogeo Palmieri, prestigioso esempio di architettura funeraria messapica, è visitabile all'interno del giardino di Palazzo Guarini, lungo via Palmieri a Lecce. Rinvenuta nel 1912 da un appassionato di antichità locali, la tomba apparve già priva di corredo, depredata probabilmente nel corso del XVI secolo, epoca a cui risalgono alcune iscrizioni graffite sulle pareti del corridoio d'ingresso e delle celle.
L'ipogeo è composto da tre ambienti disposti intorno ad un vestibolo; le stanze presentano una decorazione pittorica bipartita: uno zoccolo di colore scuro delimitato da una doppia fascia di colore rosso, che continua anche sugli stipiti, ed una zona superiore decorata con due file di riquadri rossi. Si conservano ancora i sei capitelli che decoravano gli stipiti delle porte. Il soffitto è ricavato con lastroni litici di grandi dimensioni.

 

LECCE

 

Lungo il corridoio di accesso alla tomba corrono due fregi scultorei a bassorilievo di pregevole gusto artistico. Il fregio figurato si compone di due lunghe lastre figurate, marginate sul lato superiore da una cornice ed una file di ovuli; il suo discreto stato di conservazione consente la lettura abbastanza precisa di ciò che vi è raffigurato, ovvero un combattimento tra guerrieri a piedi e a cavallo. Il fregio floreale, incassato nella parete opposta, è costituito da tre lastre: al centro, emergente da un cespo d'acanto, un volto femminile con copricapo, associato a due steli che si snodano ai suoi lati occupando tutta la lunghezza del fregio.

Sulla base di confronti stilistici e tipologici, per la tomba leccese, realizzata evidentemente per una famiglia locale aristocratica, è stata proposta una cronologia all'inizi del III secolo a.C.

 

Rudiae

 

Rudiae (in salentino Rusce ['Ruʃe], in greco antico Ροδίαι) è un'antica città messapica, nell'area di influenza della colonia dorica di Taranto. La città è nota soprattutto per aver dato i natali allo scrittore latino Quinto Ennio. Viene oggi identificata con i resti archeologici situati nel comune di Lecce, lungo la strada per San Pietro in Lama.

LECCE

 

Rudiae è identificata con i resti archeologici rinvenuti nella prima periferia di Lecce, a circa 3 chilometri dal centro abitato, in direzione sud-ovest. Una menzione di Rudiae come collocata presso Lupiae, l'antica Lecce si ha in un resoconto di epoca normanna. Successivamente, nel XVI secolo, l'umanista Antonio De Ferrariis detto il Galateo avanzò per primo l'ipotesi di identificare la patria di Ennio con la località di Rusce, ipotesi poi accettata e convalidata dallo storico ed epigrafista Theodor Mommsen.

Secondo un'ipotesi oggi superata dall'evoluzione degli studi archeologici e storiografici, il sito di Rusce era stato primariamente considerato un sobborgo dell'antica Lupiae, a sua volta caratterizzata da insediamenti umani sparsi "a macchia di leopardo" sul territorio.

Nel sito sono visibili le tracce di un anfiteatro, una necropoli e due cinte murarie in blocchi di pietra calcarenitica (tufo). A giudicare dall'estensione della cinta muraria si conta che l'intera area vanti un'estensione di circa 100 ettari, il doppio delle dimensioni che raggiunse la vicina Lupiae nel periodo romano. I materiali rinvenuti ne attestano la frequentazione già a partire dal IX-VIII secolo a.C. e la nascita di un insediamento di una certa importanza tra la fine del VI e il III secolo a.C. Successivamente la città perse di importanza e già nel I secolo d.C. - secondo la testimonianza di Silio Italico - era ridotta a un modesto villaggio, in coincidenza del progressivo affermarsi di Lupiae, che proprio in quel periodo (tra I e II secolo) si dotava di un anfiteatro e di un teatro.

 

Teatro Romano di Lecce

Il teatro romano di Lecce è un monumento di epoca romana situato nel centro storico della città. Di incerta datazione, il teatro è assegnato al periodo augusteo.

Il teatro romano di Lecce fu casualmente scoperto nel 1929, durante alcuni lavori eseguiti nei giardini di due palazzi storici della città (palazzo D'Arpe e palazzo Romano). Gli scavi effettuati riportarono alla luce la cavea (diametro esterno 40 m; diametro interno 19 m) che, ricavata in un banco di roccia, fu rivestita in opera quadrata. Essa è divisa in sei cunei da cinque scalette radiali dei cui gradini ogni coppia corrisponde ad uno di quelli riservati agli spettatori. Ogni cuneo è costituito da dodici gradoni (altezza 0,35 m; profondità 0,75 m circa), molti dei quali restaurati. Alla zona dell'orchestra, che era il luogo riservato all'evoluzione del coro, si accedeva mediante una stretta galleria coperta.

LECCE

 

Davanti all'orchestra, pavimentata a lastre rettangolari di calcare bianco, si notano tre larghi gradini che girano a semicerchio sui quali venivano, all'occorrenza, collocati seggi mobili riservati ai notabili. Dietro i gradini è presente un muretto (balteus) e, dietro l'orchestra, oltre al canale destinato a raccogliere il sipario, è presente la scena (altezza dal piano dell'orchestra 0,70; profondità 7,70 m; larghezza 30 m).

D'incerta datazione, il monumento è assegnato al periodo augusteo, al quale apparterrebbero alcuni frammenti della decorazione fittile del balteus, mentre all'età degli Antonini si vuole risalgano le statue marmoree che adornavano il teatro. Attualmente tutti i reperti facenti parte del teatro romano di Lecce sono custoditi nell'adiacente museo omonimo.

Si suppone infine che il teatro fosse capace di ospitare un pubblico di oltre 5.000 spettatori, per il quale venivano rappresentate tragedie e commedie.

 

 

Roca Vecchia

Roca Vecchia o Rocavecchia è una località costiera del Salento e una delle marine di Melendugno, in provincia di Lecce. Si affaccia sul Mare Adriatico ed è posta tra San Foca e Torre dell'Orso.

Sede di importanti scavi archeologici, è un centro turistico di rilievo durante il periodo estivo. Si segnalano la torre di avvistamento cinquecentesca, le rovine del castello a picco sul mare, il santuario della Madonna di Roca del XVII sec. e le due grotte Posia (dal greco, "sorgente d'acqua dolce"), meglio note come grotte della Poesia. Queste ultime, in particolare, distanti circa 60 metri l'una dall'altra, sono delle grotte carsiche cui sono crollati i tetti; l'acqua del mare giunge in ciascuna di esse attraverso un canale percorribile a nuoto o con una piccola imbarcazione. La più grande delle due ha una pianta approssimativamente ellittica con assi di circa 30 e 18 metri e dista dal mare aperto una trentina di metri. La Posia Piccola, invece, ha assi di circa 15 e 9 metri ed è separata dal mare aperto da una settantina di metri in linea d'aria. La sua notevole importanza in ambito archeologico è legata al rinvenimento nel 1983, grazie all'archeologo Cosimo Pagliara, di iscrizioni messapiche (ma anche latine e greche) sulle sue pareti, da cui è stato possibile stabilire che la grotta fosse anticamente luogo di culto del dio Taotor (o anche Tator, Teotor, o Tootor).

A nord dell'area archeologica sorge il centro attualmente abitato (22 residenti nel 2001), noto anche come Roca li Posti, frequentato in estate da vacanzieri.

Lungo la strada che collega Torre dell'Orso a Melendugno sorge il vecchio villaggio disabitato, con una masseria fortificata attualmente in restauro, di Roca Nuova. Tale borgo sorse intorno al 1480, quando la popolazione di Roca Vecchia fu messa in fuga dalle incursioni turche.

 

 

 

 

MELENDUGNO

Gli scavi effettuati a Roca hanno evidenziato un imponente sistema di fortificazioni risalente all'età del bronzo (XV-XI secolo a.C.), oltre a numerosi reperti che per affinità ricordano modelli minoici ed egei. Si ritiene che, in un periodo databile intorno al XV secolo a.C., il sito sia stato assediato e incendiato. Anche le successive mura, ricostruite nell'XI secolo a.C., presentano tracce di incendio. Di questo luogo misterioso, che come la mitica Troia fu più volte distrutto e più volte ricostruito si ignora chi fossero i popoli fondatori e perfino se queste fortificazioni servissero a difendere una città oppure - come appare più probabile - un importante luogo di culto. Il sito fu comunque frequentato per tutta l'età del ferro, mentre decisamente più cospicue sono le tracce relative all'età messapica (IV-III secolo a.C.): una cinta muraria (che tuttavia non fu completata), un monumento funerario, diverse tombe e delle fornaci. Il nome della città messapica (o per meglio dire la sua latinizzazione) si pensa fosse Thuria Sallentina.

Il sito fu successivamente abbandonato (non sono state rinvenute tracce del periodo romano), mentre fu frequentato nell'alto medioevo da anacoreti, provenienti perlopiù dall'Impero Romano d'Oriente, che col tempo costituirono una comunità, abitando in una serie di grotte scavate nel calcare. Agli inizi del XIV secoloGualtieri di Brienne, conte di Lecce, ricostruì Roca facendone una città fortificata, ma nel 1480 la sua popolazione venne messa in fuga dalle incursioni turche. In quell'anno infatti il sultano Maometto II, dopo aver conquistato Costantinopoli (1453) e sottomesso tutta la Penisola Balcanica, inviò una spedizione che sbarcò sulla costa orientale del Salento. Roca Vecchia fu saccheggiata e usata dai Turchicome base operativa per sferrare attacchi alla città di Otranto e ad altri centri salentini. È in questo contesto che si colloca la figura, ricorrente nei racconti dei casali di discendenza Rocana, Calimera,MelendugnoBorgagne e Vernole, della mitica Donna Isabella sventurata, identificata forse come Maria d'Enghien [era morta più di 30 anni prima!], castellana di Roca che perse il feudo, insieme al marito ed al figlio morti in battaglia. La città, liberata nel 1481, divenne successivamente covo di pirati, tanto che nel 1544 Ferrante Loffredo, governatore della provincia di Terra d'Otranto, dette l'ordine di raderla al suolo.

 

Apriglano

Apigliano (Iapijianò in grico) è un antico villaggio medievale della Terra d'Otranto (odierno Salento) abbandonato tra il XIV e il XVI secolo per circostanze ancora da precisare. Oggi è un sito archeologico unico nel suo genere.

Oggi parte del territorio comunale di Martano, l'antico casale di Apigliano si trovava vicino al nucleo urbano di Zollino, ai limiti del territorio comunale. Come risulta dal catasto onciario del 1746, tale località fino al XVIII secolo era una pertinenza del comune di Zollino, ma per un errore di trascrizione degli atti ufficiali venne assegnato dal XIX secolo in poi al comune di Martano.

Le prime notizie documentate, riportanti la situazione fiscale della località, risalgono al XIII secolo d.C., anche se i primi villaggi relativamente stabili nel Salento, attraverso ricerche condotte dall'Università del Salento, sono da riferire all'VIII secolo. Attualmente del casale rimane solo la chiesetta sconsacrata intitolata a Santa Maria, ma conosciuta dagli abitanti del posto come Chiesa di San Lorenzo.

 

MARTANO

Nel 1997 la Facoltà di Beni Culturali dell'Università del Salento ha avviato nella località una prima campagna di scavo, sotto la direzione del Prof. Paul Arthur, che ha portato alla luce una realtà ormai dimenticata. In particolar modo gli elementi raccolti sono in grado di fornire informazioni circa due periodi cronologici: il periodo bizantino e il periodo angioino.

Con riferimento al periodo bizantino sono stati rinvenuti resti di alcune abitazioni rurali costruite con la tecnica del muro a secco che evidenziano la presenza di un insediamento abbastanza esteso. Sono stati trovati anche vari oggetti di vita quotidiana ( un coltello, una punta di freccia, un punteruolo, un anello appartenente probabilmente ad funzionario dell'amministrazione tributaria bizantina, ecc.) e un forno per la lavorazione dei metalli.

Più ricchi sono invece i ritrovamenti riferibili al periodo angioino. Innanzitutto sono stati riportati alla luce i resti di una chiesa, che si ritiene sia la Chiesa di San Giorgio (descritta nella visita pastorale del 1608). Nel 2007 la chiesa, originariamente costruita in terra, è stata ricostruita in posto. Sia all'interno che all'esterno della chiesa sono state ritrovate numerose tombe e ossari (ben 52) e oltre 40 scheletri umani. Si è notato che ogni tomba era usata per più inumazioni. Inoltre, particolarità del cimitero è il fatto che le tombe dei bambini fossero disposte sul perimetro laterale della cappella, in modo che l'acqua piovana, venuta a contatto con gli spioventi del tetto dell'edificio sacro e quindi santificata, avesse potuto benedire i loro corpi. All'interno delle tombe anche numerosi oggetti di vita quotidiana (orecchini, collane, fibbie, cinture, un anello matrimoniale, vestiti).

In seguito all'abbandono del villaggio nel XVI secolo, è stata creata una masseria, tuttora esistente.

 

Centopietre

Centopietre è un antico monumento funerario di interesse nazionale situato nel comune di Patù in provincia di Lecce.

Il nome Centopietre deriva dal fatto che la costruzione era originariamente composta esattamente da cento pietre (oggi 99) incastonate fra di loro.

La sua struttura ha dato luogo a diverse collocazioni storiche; tuttavia è databile al IX secolo e venne edificato come mausoleo sepolcrale del generale Geminiano, messaggero di pace trucidato dai saraceni subito prima della battaglia finale tra cristiani e infedeli di Campo Re del 24 giugno 877, ai piedi della collina di Vereto.

 

PATU’

 

Le centopietre è una singolare costruzione di forma rettangolare costruita con 100 blocchi di roccia calcarea provenienti dalla vicina città messapica di Vereto. Le sue dimensioni sono queste: lunghezza m. 7,20; larghezza m. 5,50; altezza m. 2,60. La copertura è a tetto a due falde. All'interno presenta diversi strati sovrapposti di affreschi a soggetto sacro, risalenti al XIV secolo. In particolare sono raffigurati tredici Santi di origine orientale, eretti e frontali, secondo uno schema di ispirazione basiliana, che testimonia la trasformazione del monumento in chiesa paleocristiana durante l'epoca medioevale.  

Il monumento, per secoli lasciato all'oblio, nel 1872 nacque all'interesse degli studiosi. Nel 1873 il governo lo dichiarò Monumento nazionale di seconda classe. 
Le pitture del monumento funebre attualmente sono quasi del tutto cancellate dall'umidità.

 


Vereto

Vereto è un'antica città messapica situata a poca distanza dal comune di Patù in provincia di Lecce. Situata sull'omonima collina, fu un importante centro per il commercio, sia con la Grecia che con la Magna Grecia. Divenne municipio romano e poi fu rasa al suolo nel IX secolo ad opera dei Saraceni. Di tale centro, rimangono alcune testimonianze monumentali. 
Tutti gli studiosi concordano che il sito occupato attualmente dalla chiesetta della Madonna di Vereto, fosse il centro, l'acropoli, sia della Vereto messapica, che quello della vereto romana e medievale.

 

PATU’

 

Dalle sue rovine ebbe origine Patù. Il suo nome, dal greco Pathos, Πάθος, spiega le ragioni della sua esistenza (sofferenza). Secondo altre ipotesi, essendo un granaio dove i veretini riponevano le vettovaglie, ebbe il nome del custode: Verduro Pato. Poi, per influenza della dominazione francese, Pato divenne Patù.

Siti Archeologici della Provincia di Taranto

Saturo

Saturo è una località sulla Litoranea Salentina della Marina di Leporano, in provincia di Taranto, e ospita sul suo promontorio l'omonimo parco archeologico. Saturo dista circa 12 km da Taranto ed è raggiungibile percorrendo la Litoranea Salentina. La località si estende sia nel versante interno della litoranea (fino a raggiungere il territorio della città di Leporano), sia in quello esterno (fino a raggiungere la costa e le spiagge di Saturo, Canneto e Porto Pirrone). Saturo è molto frequentata nei mesi estivi, poiché costituisce una zona residenziale di villeggiatura, ma è poco abitata per il resto dell'anno. Non sono presenti industrie di alcun tipo: solo appezzamenti di terreno destinati all'agricoltura (uve, olive, verdure). La sua importanza è dovuta, principalmente, alla presenza di un sito archeologico che ricopre un intervallo storico che inizia dal XVIII secolo a.C. e termina al XVI secolo d.C.

 

Parco Archeologico Promontorio di Saturo

L'istituzione di un parco archeologico sottolinea l'importantissima valenza storica ed archeologica del sito in questione, difatti estesa all'intera località formata da un'ampia valle fluviale ricca di testimonianze archeologiche comprese tra l'età Neolitica e quella Alto-medievale, non tutte tutelate e ricadenti in proprietà private. La lunghissima fase di vita di questo promontorio costiero e della valle retrostante dipende dalla sua particolare conformazione geologica e posizione geografica, la prima la inserisce tra quelle località costiere dotate di doppio approdo, la seconda dipende dalla stretta vicinanza con il grande Porto di Taranto. In particolare, all'interno del Parco è possibile ammirare e visitare parte del grande insediamento indigeno dell'età del Bronzo e del Ferro, caratterizzati da un piccolo aggere di consolidamento, i resti di un santuario poliadico dedicato ad Atena, due ampie porzioni riguardanti una villa romana di Età imperiale (II-IV secolo d.C.) che occupava gran parte del promontorio costiero. La grande struttura romana si poggiava, a sud, verso la costa, su un cripto-portico utilizzato come passeggiata di belvedere e che congiungeva l'abitazione privata alle terme pubbliche dotate di una grande piscina. Risale a quest'epoca la costruzione di un probabile pontile o molo di attracco, secondo altri interpretabile come barriera frangi-flutti (visitabile). All'interno del parco è visibile, inoltre, una torre costiera di avvistamento del XV secolo, ancora integra, ma in attesa di restauro. Il parco abbraccia un promontorio di notevole interesse naturalistico e paesaggistico. Il terreno del parco è di proprietà comunale. Dal 2006, la cooperativa PoliSviluppo, formata da archeologi, realizza visite guidate, progetti didattici, laboratori di archeologia sperimentale, promozione e si occupa della manutenzione ordinaria, apertura del Parco e realizzazione di progetti scientifici.

 

Leggende

La leggenda racconta che Taras, uno dei figli di Poseidone, circa 2000 anni prima di Cristo, sarebbe giunto qui e avrebbe fondato questo insediamento che dedicò a sua madre Satyria o a sua moglie Satureia. Il toponimo è incerto anche tra la derivazione sat ur (città del sole), e quella mediorientale satyr (valle).

Un'altra leggenda, complementare, racconta che qui approdarono, nell'VIII secolo a.C., i coloni greci provenienti da Sparta, che, guidati da Falanto, sottratto il territorio agli Iapigi, fondarono la città di Taranto che in seguito divenne una delle città più importanti della Magna Grecia.

 

Storia

L'area compresa fra le baie di Saturo e Porto Perone, nella quale sorge il Parco Archeologico di Saturo, è uno dei luoghi più significativi del Mediterraneo, sia per quanto riguarda le fasi della preistoria e della protostoria, sia per le vicende relative alla colonizzazione del tarantino da parte dei coloni greci provenienti dalla Laconia.

Le due insenature contigue offrivano, infatti, riparo alle navi con qualsiasi condizione del vento e il promontorio offre una posizione privilegiata per il controllo dell'orizzonte. In più, la presenza di ricche sorgenti, consacrate come santuari già da prima della fondazione della colonia greca di Taranto, ha fatto sì che la zona fosse abitata fin dall'Età del Bronzo (a partire dal XVIII secolo a.C.) e frequentata da viaggiatori e mercanti micenei.

In età romana imperiale, la bellezza dei luoghi e la salubrità dell'ambiente hanno determinato la costruzione di un'importante villa romana già nota agli storici locali dei secoli scorsi. In epoca tardo antica, dopo l'abbandono nel VI secolo d.C. della villa, l'insediamento si sposta all'interno per ragioni di sicurezza e di lì a poco, con l'incastellamento degli abitati precedentemente organizzati in nuclei sparsi e non fortificati, nascerà il borgo di Leporano.

 

Protostoria: dall’età dal bronzo alla colonizzazione Greca


Durante la I Età del Bronzo (1800-1700 a.C.) e sino al XVI secolo a.C. sulla collinetta dell'Acropoli e sui suoi spalti si stabilisce una comunità che ha stretti rapporti culturali con il mondo egeo, come dimostrano anche le capanne costruite con il muro perimetrale in pietre irregolari e pavimenti formati da strati di frammenti di vasi misti a ceramica; i frammenti vascolari fanno capire come attraverso il Mar Ionio giungessero merci dalla Grecia e soprattutto dal Peloponneso.

Nel periodo di tempo compreso tra i secoli XV e XIV a.C. la zona non è abitata, come dimostra uno strato di terreno sterile, probabilmente per il carattere mobile delle comunità di pastori dell'epoca. All'inizio della fase Tardo Appenninica (XIII secolo a.C.), il villaggio rinasce con aspetti proto-urbani: le capanne sono di forma sub-circolare e ricostruibili grazie alle tracce dei pali di legno che fungevano da strutture portanti, mentre le pareti erano in incannucciata e intonaco a base argillosa. Tutto il villaggio era circondato da un grande muro a secco, ora non più visibile, che aveva un'altezza di tre metri e una base larga cinque metri (muro che costituiva anche opera di terrazzamento), e che all'esterno era circondato da un fossato (forse per il drenaggio delle acque piovane) e da un altro muro più piccolo. Quest'opera di ingegneria rivela il carattere organizzato della comunità di Saturo/Porto Perone, che ricevevano modelli culturali dal Mediterraneo orientale, come provano i numerosi frammenti di ceramica micenea rinvenuti. A partire dall'XI secolo a.C., e sino alla fondazione di Taranto, il villaggio che viene nuovamente costruito presenta gli aspetti tipici della cultura iapigia dell'Età del Ferro.

 

 

 

LEPORANO

 

La frequentazione greca: secoli VIII – III a.C.

Il toponimo Saturo è esattamente il nome che i greci usavano per indicare questo luogo. Tale nome è indicato dalle fonti antiche che narrano la colonizzazione greca e la fondazione di Taranto.
Il geografo Strabone, che ha scritto un trattato, la Geografia, nell'Età di Augusto, ci ha tramandato il racconto di uno storico greco del V secolo, Antioco di Siracusa: dopo le guerre messeniche, i Parteni ovvero gli abitanti della Laconia che erano nati illegittimamente durante la guerra, insieme con gli schiavi, ordirono una congiura per prendere il potere a Sparta, ma furono scoperti. Così il capo dei congiurati, Falanto, venne consigliato dall'Oracolo di Delfi di andare a colonizzare Satyrion e la regione di Taranto, e a diventare il flagello degli Iapigi.
Questa tradizione riflette molto da vicino la realtà emersa dalle ricerche archeologiche: il villaggio di Satyrion fu distrutto, e tutta l'area intorno a Taranto fu occupata da insediamenti rurali. Il ruolo predominante di Saturo si rivela, oltre che dalla tradizione storica, anche dalla presenza di due santuari, uno all'esterno del parco e l'altro sull'acropoli, chiamato Santuario della Sorgente', per la pratica del culto della Dea Basilissa, cioè della Dea Regina. Il Santuario della Sorgente, successivamente viene ampliato con la costruzione di un nuovo sacello in muratura a pianta rettangolare all'interno del quale viene posta una statua in marmo della divinità principale e diversi oggetti d'argento che costituirono il tesoro del santuario.

 

Età romana: dall'era repubblicana (II - I secolo a.C.) all'era tardo-imperiale (III - VI secolo d.C.)

La situazione cambia radicalmente con la conquista romana del tarantino.
Lungo tutta la litoranea, ad ogni promontorio corrispondeva una villa, che univa le funzioni di luogo di piacevole soggiorno e di produzione agricola.
Sono state individuate le ville di Gandoli e di Saturo, ma si devono citare anche quelle di Luogovivo e Lido Silvana nel contiguo territorio di Pulsano.

Alla fase romana è pertinente anche la lunga cisterna tagliata nel versante sud dell'acropoli, che si conserva per tutto l'alzato e che è stata individuata nel corso dei lavori per la realizzazione del parco.
Un lago sotterraneo che si trova tra Leporano e Saturo, chiamato "Pozzo di Lama Traversa", rappresentava, insieme ad altri pozzi sorgivi, la riserva acquifera del territorio. Un acquedotto di 12 km, risalente al I secolo a.C., chiamato Aquae Nimphalis, utilizzò l'acqua di Lama Traversa per fornire l'intera città di Taranto e i suoi territori sub-urbani, mediante la derivazione di una serie di canali che attraversano le vallate del litorale tarantino (inclusa quella di Saturo).

 

Villa romana

La villa di Saturo risale, nella sua prima costruzione, alla prima Era Imperiale (I secolo a.C.), come dimostra la presenza di frammenti di ceramica sigillata (ceramica fine da mensa, ovvero destinata ad essere utilizzata come servizio da tavola), di vasellame per uso domestico, frammenti di lucerne del tipo africano e di marmi policromi, e di una moneta bronzea (custodita al Museo di Taranto) dell'età di Settimio Severo ritrovata sotto un pavimento a scacchiera di color rosso e bianco.
La villa di Saturo si estendeva da un porticciolo all'altro; i due nuclei che si vedono ai lati della torre costiera sono relativi alla stessa unità abitativa, ed erano collegati da un porticato con affaccio a mare in opera incerta.
Bisogna precisare che le strutture murarie attualmente visibili della villa risalgono all'era Tardo Imperiale, fra il III e IV secolo d.C., rimanendo in uso sino a tutto il VI d.C..
La sua ultima planimetria ha caratteristiche simili a quelle della Villa di Sirmione, della Villa dei Misteri di Pompei e della Villa dei Papiri presso Ercolano: infatti, in comune hanno la posizione assiale, la piscina termale e il lungo porticato.
L'edificio si divide in due parti: la prima parte costituisce gli ambienti residenziali, denominata pars urbana; la seconda parte costituisce gli ambienti termali, denominata grandi terme.
Nella prima parte, ad uso privato, disposte attorno ad un'area scoperta, si trovano diversi ambienti, tra cui un piccolo edificio termale, un atrio tetrastilo di ordine dorico al centro del quale un probabile impluvium per la raccolta delle acque, ambienti di servizio (cucina, piccole terme ad uso domestico e alcuni vani usati dalla servitù), un piccolo edificio termale, e un'ampia e capace cisterna con volta a botte.
Nella seconda parte, ad uso pubblico, si trova un ampio complesso termale di cui fanno parte, tra gli altri ambienti, una grande vasca (natatio) fornita di un sistema di riscaldamento delle acque, una vasca per acqua tiepida (tepidarium), degli spogliatoi (apodyterium), una palestra e delle stanze di servizio, mentre, più ad est (in prossimità della torre), un ambiente triabsidato interpretato come sala per banchetti (dietae).
La villa romana era completata in genere da un giardino ed un podere, le cui specie vegetali, unite a quelle indigene della macchia mediterranea, sono state usate per la forestazione della zona. Inoltre, ci sono testimonianze di un ninfeo, una fontana di grandi dimensioni, situato sulla spiaggia di Saturo, di cui si sono persi i resti a causa dell'usura e, successivamente, della cementificazione per la costruzione del deposito militare risalente alla II Guerra Mondiale.


Medioevo ed Età Moderna (secoli VII – XVI d.C.)

Il passaggio dall'Età Romana al Medioevo può essere collocato intorno al VI secolo d.C.; in quel periodo, infatti, si svolge la guerra tra Goti e Bizantini per il possesso dell'Italia, conclusasi a favore dell'esercito bizantino di Giustiniano nel 553 d.C.. Fra il VII ed il VIII secolo d.C. l'insediamento sembra collocarsi più all'interno, probabilmente per difendersi dalle scorrerie arabe. Nel XII secolo, l'arabo El Edrisi ricorda Saturo un luogo di ancoraggio per le navi.
L'esigenza di proteggere le coste dagli assalti della pirateria prima saracena e successivamente turca nasce nell'Italia assai presto; la torre di Saturo, che risulta dai documenti già esistente nel 1569, si collega alla sistematica costruzione di torri costiere anticorsare voluta a partire dal 1563 dal viceré di Napoli spagnolo Pietro Afan di Ribera duca di Alcalà. La torre è situata a 9 m. s.l.m., proprio a ridosso delle vecchie cave e dell'antico porticato della villa romana, è a base quadrata e, inizialmente si sviluppava su due livelli, si è estesa in altezza con la costruzione di un altro corpo che si fa risalire agli inizi del 1900. Oggi, il maestoso edificio presenta dissesti statici ed è stato dichiarato pericolante.

 

Oggi

Nel parco archeologico sono ancora visibili:

      ·        i resti della villa romana e del suo porticato;

      ·        la torre anticorsara;

      ·        l'acropoli con i suoi spalti;

      ·        la necropoli;

      ·        la grande cisterna tagliata;

      ·        il Santuario della Sorgente;

      ·        la scalinata che scende dall'acropoli al santuario;

      ·        le varie costruzioni realizzate durante la II Guerra Mondiale;

      ·        le opere murarie ormai sommerse che fungevano da frangiflutti e moli per l'approdo delle navi.

 

Nella figura sono anche contrassegnate:

      ·        le zone dove sorgeva il ninfeo, distrutto dalla costruzione del deposito militare, oggi sede del punto di ristoro del Parco;

      ·        le zone dove sorgevano i giardini della villa, oggi occupate dalla macchia mediterranea (tra cui, piante di rosmarino e malva, alberi di mimose, di ginestre, canneti ecc.) e da varie panchine per i visitatori del Parco;

     ·        l'ingresso principale del Parco.

Il porticato dell'antica villa romana è interrotto nel suo percorso dalla costruzione di un bunker, una collinetta in cemento armato ricoperta con la terra. Nel bunker è ancora visibile un ascensore manuale, costituito da un piano elevatore asservito da contrappesi in cemento, che permetteva ad un grosso faro di fuoriuscire dalla sua sommità, per l'illuminazione del mare (a favore delle batterie costiere) e del cielo (a favore delle batterie contraeree). Ai piedi del bunker è ancora presente una casamatta, così come se ne trovano alla sommità dell'antica acropoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

Parco Archeologico delle Mura Messapiche

Si estende per 150.000 m² a nord-est del comune di Manduria, in provincia di Taranto. Al suo interno sono conservati ampi tratti della triplice cerchia di mura che in età messapica circondava la città, la più grande necropoli messapica mai scoperta (circa 2.500 tombe databili dal VI al II secolo a.C.), il Fonte Pliniano (un pozzo alimentato perennemente da una falda acquifera sotterranea), e la chiesa di San Pietro Mandurino, di epoca medievale.

La Manduria del periodo Messapico era circondata da una triplice cerchia muraria (datata tra il V ed il III secolo a.C.), una interna, una esterna ed una disposta tra le prime due. La prima cerchia muraria, quella più interna, fu costruita tra V e IV secolo a.C.; ha un perimetro di 2.187 metri e un diametro di 842 metri. Fu edificata con grossi massi di pietra locale incastrati tra loro (senza quindi l'uso di malta). Prima di questa cerchia muraria vi è un fossato, largo e profondo 4 metri. La cerchia di mura intermedia, costruita nel IV secolo a.C., fu ottenuta interrando il fossato e seguendo lo stesso perimetro della cerchia antica (proprio sotto questa mura fu ucciso il re di Sparta Archidamo, nel 338 a.C.). La cinta esterna risulta essere quella meglio conservata e quella più imponente: costruita con la tecnica dell'opus quadratum, ha un perimetro di 3.382 metri ed un diametro di 1.290 metri. Inoltre raggiunge un'altezza e uno spessore di 5 metri. Anche questa cerchia è preceduta da un fossato, largo 6,50 metri e profondo 5. Quest'ultima cerchia di mura fu costruita intorno al III secolo a.C.

Intorno alle mura vi erano anche delle strade che, attraverso delle porte disposte ad intervalli regolari nelle mura e protette da torrette, mettevano in comunicazione l'interno dell'abitato con l'esterno. Dopo l'assalto della città ad opera di Quinto Fabio Massimo le mura non furono più ricostruite.

 

 

 

 

MANDURIA

 

All'interno del sito, a ridosso delle mura, è presente la più vasta necropoli messapica mai scoperta (2.500 tombe in totale). La scoperta e la conseguente tutela della necropoli è avvenuta nel 1932, ad opera di Quintino Quagliati, soprintendente ai beni archeologici della Puglia. Negli anni successivi sono stati condotti nuovi scavi che hanno portato alla luce nuove tombe con all'interno i corredi funebri. Le varie tombe scoperte percorrono un arco temporale che va dal VII al II secolo a.C. Si è notato, inoltre, che le tombe più recenti hanno subito cambiamenti sia della struttura che del tipo di sepoltura del defunto. Tra i vari modelli di tombe, prevalgono quelle del tipo a fossa rettangolare disposte a gruppi, probabilmente in base al ceto sociale: molte di queste sono intonacate e presentano anche tracce di pittura. Il Fonte Pliniano è tuttora uno dei simboli della città (è rappresentato anche nello stemma cittadino); di epoca quasi certamente messapica, venne descritto da Plinio il Vecchio (da cui successivamente prese il nome) nella sua Naturalis Historia. Si tratta di un pozzo posto all'interno di una grotta naturale di 18 metri di diametro e 8 metri di larghezza raggiungibile scendendo 20 gradini scavati nella roccia. Sulla volta della grotta si apre un lucernario quadrato, una struttura cilindrica dalla quale spunta un albero di mandorlo (secondo la leggenda secolare) dalla quale penetra la luce necessaria ad illuminare l'ambiente. Dal pozzo e dalla vasca adiacente sgorga perennemente acqua proveniente da una falda acquifera sotterranea. Anticamente il Fonte Pliniano era adibito anche a luogo di culto di una divinità messapica.

Anch'essa inclusa nel parco archeologico, probabilmente risale all'età ellenistica, epoca in cui era una tomba a camera. Successivamente, tra l'VIII ed il IX secolo fu costruita la cripta sotterranea, adibita al culto bizantino; la chiesa superiore, invece, è datata tra X e XII secolo. In epoca successiva la chiesa fu abbandonata fino al 1724, quando l'allora vescovo di Oria decise di farla restaurare (vi è anche una lapide che lo attesta). La chiesa, orientata in direzione est-ovest, secondo il rito greco, ha due navate e due absidi divise da tre pilastri. Inoltre è divisa in due ambienti da un grande arco centrale. Di questi due ambienti, uno ha una volta a cupola, mentre l'altro è voltato a botte. Lungo le pareti della chiesa e della cripta sottostante sono presenti affreschi raffiguranti santi di difficile datazione (forse di epoca bizantina) a causa dei pesanti rimaneggiamenti del XVIII e XIX secolo. Nel 1972, sotto il pavimento dell'edificio, sono state scoperte alcune tombe di epoca medievale.

 

Cripta del Redentore

La cripta della Madonna della Grotta è una chiesa rupestre ipogea situata nel comune di Taranto.

Originariamente era un'antica tomba a camera romana di età imperiale situata in via Terni, collegata con un antico pozzo d'acqua sorgiva. La grotta di forma circolare del diametro di circa otto metri, le cui pareti sono decorate da affreschi di grande valore artistico risalenti agli inizi del XII secolo. La cripta faceva parte della Chiesa di Santa Maria di Murivetere, chiusa al culto nel 1578 da Monsignor Lelio Brancaccio.

La tradizione infatti afferma che nella cripta si celebrò il primo culto cristiano secondo la liturgia bizantina. Nel XII secolo fu corredata da affreschi di notevole bellezza tra cui il "Cristo Pantocratore tra san Giovanni e la Vergine" nell'abside, e sulle pareti laterali sono decorate con figure di santi "San Basilio", "Sant'Euplo" e "San Biagio" .

Dopo il XIII secolo la cripta fu abbandonata per parecchi secoli, probabilmente perché eccessivamente periferica rispetto alla città, fino alla sua riscoperta nel 1899 da parte dell'archeologo Luigi Viola, durante l'esecuzione di alcuni lavori in una sua proprietà e inaugurata il 13 febbraio del 1900. Nel marzo del 1979, grazie ad una petizione dell'Arcivescovo di Taranto Monsignor Guglielmo Motolese, si decise di intervenire per il suo recupero, realizzando opere di consolidamento e di salvaguardia della struttura. Nel Dicembre 2011 il sito è stato riaperto al pubblico.

 

TARANTO

 

La Leggenda di San Pietro

La profonda devozione popolare, fece di quel luogo il teatro della leggenda sulla prima evangelizzazione cristiana di Taranto. Come risulta dalla "Historia Sancti Petri", l'Apostolo Pietro sarebbe sbarcato verso l'ora terza nel porto della città, dopo una sosta nell'odierna Isola di San Pietro. Volendosi dissetare, si sarebbe diretto verso il luogo sacro in cui si trovava il pozzo, vicino al quale si ergeva la grande statua in bronzo di una divinità pagana, probabilmente Zeus: nel momento in cui il santo si sarebbe fatto il segno della croce per dedicare il sito a Giovanni il Battista, la statua si sarebbe frantumata. Questo avvenimento è rappresentato nel dipinto "Ingresso di San Cataldo a Taranto", realizzato dal pittore Giovanni Caramia nel 1675, per adornare una parete laterale del vestibolo della Cattedrale di San Cataldo.

 

 

Palazzo Delli Ponti

Il Palazzo Delli Ponti di Taranto è uno dei palazzi del Borgo Antico della città. Fu costruito nel 1709 dai fratelli Cataldo e Niccolò Delli Ponti, mediante una complessa opera di accorpamento di due edifici costruiti nel Cinquecento e del Seicento, e cioè il palazzo del Marchese Francesco Maria Antoglietta e quello dei Principi di Gaeta. Il palazzo ha l'ingresso principale su largo Immacolata, quello secondario su largo Gennarini e l'accesso alla stalla su via Di Mezzo, collegata al palazzo mediante una scala scavata nella roccia e con affaccio sul Mar Piccolo.

La famiglia Delli Ponti, di antica origine romana, giunse a Taranto nel XIV secolo. Il palazzo fu restaurato nel XX secolo grazie ai finanziamenti della Federazione lavoratori metalmeccanici, che voleva farne un centro studi e documentazione sulla storia del sindacato. Rimasto però abbandonato, fu rilevato dal Comune per destinarlo a sede universitaria.

Sulla facciata esterna si possono notare mascheroni barocchi con funzione di sgocciolatoi ed una loggia cinquecentesca su largo Immacolata. L'edificio si sviluppa su quattro livelli, di cui quello interrato è costituito da pozzi e cisterne, e assume una notevole rilevanza archeologica per la presenza di un ipogeo funerario. Al piano terra, un'incisione riporta la data di ultimazione dei lavori di costruzione del palazzo (1709). Una scala monumentale conduce all'appartamento nobiliare sito al primo piano, nel cui salone è ospitato un altare del settecento, mentre nella camera nuziale figurano i tre archi sormontati da un ponte azzurro dello stemma di famiglia. Il secondo piano è più piccolo e meno prestigioso da un punto di vista architettonico.

 

TARANTO

 

Durante i lavori di restauro, in corrispondenza dei locali riservati alla stalla, furono scoperti alcuni resti delle antiche mura greche che circondavano l'acropoli, risalenti al V secolo a.C., nonché un ipogeo funerario con 8 tombe a fossa ricavate nella roccia, ed otto tombe ad arcosolio disposte lungo le pareti, tutte di tipo paleocristiano. Nel XIV secolo, il carparo locale fu utilizzato per ricavarne materiale da costruzione per i palazzi, per poi colmare l'area con i residui della lavorazione. Le tombe ad arcosolio risultarono tutte violate, probabilmente fin dal VII secolo, mentre quelle a fossa non restituirono oggetti di corredo significativi. All'esterno delle sepolture invece, furono ritrovati oggetti in ceramica di origine nordafricana e lucerne con simboli del Cristianesimo, utilizzati probabilmente durante le cerimonie funebri che prevedevano un banchetto con i defunti, un'usanza tramandataci con il nome di "Refrigerium":
«Il Signore dia refrigerio al tuo Spirito», si può ancora leggere nelle catacombe dei primi Cristiani.

 

 

Tempio di Poseidone

Il Tempio di Poseidone (o Tempio Dorico) è un tempio periptero di ordine dorico situato nella odierna piazza Castello nel centro storico di Taranto. Risulta essere il tempio più antico della Magna Grecia ed è l'unico luogo di culto greco ancora visitabile nel Borgo Antico.

Il tempio è datato al primo quarto del VI secolo a.C.. Si presuppone che la peristasi dorica sia dovuta ad una fase di espansione successiva alla costruzione della cella in quanto non si riscontrano connessioni costruttive nelle fondazioni con il nucleo più antico. Il tempio ha subito saccheggi già in età postantica e parti del tempio sono stati utilizzati per la costruzione di altri edifici. I ruderi del tempio erano inglobati nella Chiesa della SS. Trinità, nel cortile dell'Oratorio dei Trinitari, nella Casa Mastronuzzi e nel Convento dei Celestini. Nel 1700 erano ancora visibili dieci spezzoni di colonne, ma furono rimossi e andarono dispersi durante il rifacimento del convento nel 1729. Verso la fine dell'Ottocento, l'archeologo Luigi Violane studiò i resti ed attribuì il tempio al culto di Poseidone, ma esso è più probabilmente da mettere in relazione con le divinità femminili di ArtemidePersefone o Hera. Altri reperti andarono dispersi con la successiva demolizione del convento nel 1926 e della vicina chiesa nel 1973.

TARANTO

 

Le devastazioni e i saccheggi susseguitesi nell'arco dei secoli, nonché il fenomeno del reimpiego, ha reso impossibile il compito di definire la planimetria esatta del tempio. Le 2 colonne di ordine dorico rimaste a testimonianza dell'antico tempio magno-greco, più una base con 3 tamburi o rocchi, furono realizzate in carparo locale ricavato dalla stessa acropoli, e rappresentano il lato lungo della "peristasis" del tempio, i cui resti sono stati individuati nel chiostro e nelle cantine del Monastero di San Michele, che fa da sfondo ai ruderi al fianco di Palazzo di Città. Sono alte ciascuna 8,47 metri, con un diametro di 2,05 metri e un interasse di 3,72 metri: dall'osservazione dell'area della "peristasis" e dal calcolo del rapporto tra la sua ampiezza e l'interasse, si suppone che il tempio avesse il fronte rivolto verso il canale navigabile, e che fosse costituito da 6 colonne sui lati corti e da 13 sui lati lunghi. Inoltre, sia il profilo del capitello che i "rocchi", molto bassi e sovrapposti senza un perno centrale, fanno risalire i manufatti agli inizi del V secolo a.C.
Tuttavia, la presenza di una piccola fossa vicino alle colonne, nonché le tracce presenti ai bordi della stessa, fanno pensare all'esistenza di una pavimentazione e di un'alzata in legno appartenenti ad un primo edificio di culto, in mattoni crudi e materiale deperibile, costruito alla fine dell'VIII secolo a.C. dai primi coloni spartani. L'area sacra sarebbe stata abbandonata definitivamente alla fine del III secolo a.C., quando la città fu conquistata dai Romani, per poi ritornare ad essere utilizzata nel VI secolo con silos, granai, quando la popolazione si ritirò nella penisola per motivi difensivi. Nel X secolo i resti del tempio avrebbero ospitato un luogo di culto cristiano, mentre dal XIV secolo una parte dell'area fu utilizzata per attività produttive con vasche di decantazione dell'argilla e piccole fornaci.

 

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