Siti Archeologici della Provincia di Bari |
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Celia peuceta (o semplicemente Cælia) Fu un antico insediamento di età
arcaico-classica. L'antico centro peuceta di Καιλία,
identificato con la romana Caelia, sorgeva a 70 m s.l.m., su un pianoro
delimitato a est e a ovest dai torrenti Fitta e Picone, 5 km a sud di
Bari, dove oggi insistono gli abitati moderni di Ceglie del Campo e Carbonara di Bari.
Le fonti letterarie non dicono nulla sulla sua origine, sebbene la si trovi
citata da numerosi scrittori e storici latini e greci, tra cui Strabone, Tolomeo e da fonti geografiche e
itinerarie (Tabula
Peutingeriana, Anonimo Ravennate e
Guidone). Le recenti indagini archeologiche hanno dimostrato che il pianoro
su cui sorse la città e il territorio circostante erano già frequentati in
età protostorica, con modalità al momento non ancora ben definite. L'età del Ferro è attestata da alcuni
frammenti di ceramica di impasto rinvenuti sia lungo il percorso della lama
Fitta, sia in alcune grotticelle artificiali in
località Reddito, Buterrito, Tufaia, localizzabili a est
dell'abitato moderno. I secoli VII-VI a.C. sono documentati da aree di necropoli, individuate all'interno del
circuito murario: la principale sembra essere quella in
località Sant'Angelo a nord-ovest del centro moderno di Ceglie. La
tipologia delle tombe è varia: a fossa, scavate nel banco roccioso con il
defunto deposto in posizione rannicchiata e con il corredo disposto intorno
(per lo più formato da ceramica geometrica apula e ceramica acroma); a
sarcofago, chiuse da lastroni di pietra talvolta con tracce di decorazione
pittorica, e tombe più monumentali del tipo a semicamera, dotate di ricco
corredo. Tra il V e il IV sec. a.C. si assiste allo sviluppo di
un vero e proprio abitato urbano, difeso da una cinta muraria lunga
5 km, ora conservata in pochi tratti a causa di un sistematico
smantellamento effettuato durante i primi anni del secolo scorso (i blocchi
furono infatti reimpiegati per la realizzazione del lungomare di Bari). La
struttura, dotata di quattro porte, era a doppia cortina, realizzata con
blocchi sbozzati di varie dimensioni alloggiati senza malta con l'impiego di
zeppe, e riempimento interno costituito da pietrame. Il percorso è ben
ricostruibile in base ai resti rinvenuti ed alle tracce da fotografia aerea
sia a oriente che a occidente, anche perché condizionato dalla presenza dei
due torrenti. Risulta ancora visibile per alcuni tratti sul lato meridionale,
in località Porta Mura, mentre il tratto settentrionale è più
problematico: alcuni studiosi infatti propendono per includere buona parte
del moderno centro di Carbonara di Bari,
mentre altri tendono a farle girare prima, a nord-ovest dell'attuale Ceglie
del Campo. |
CEGLIE DEL CAMPO In età ellenistica la
città raggiunge il suo pieno sviluppo dimostrato dal rinvenimento di numerose
tombe, con corredi ricchi di ceramiche dipinte a vernice nera o
a figure rosse,
appartenenti al ceto dirigente fortemente ellenizzato. Nei corredi tombali di V sec. a.C. si ritrovano infatti vasi di
notevole pregio di provenienza attica, come quelli attribuiti al Pittore delle
Niobidi, al Pittore di Eretria,
al Pittore di Calliope e di Crodo, e anche ambre figurate prodotte in Lucania
e in Daunia, e statue di metallo, come quella
dell'Apollo saettante, di produzione metapontina.
Verso la metà del secolo diventa sempre più preferenziale il rapporto della
città con il mercato delle colonie magnogreche, testimoniato dalla presenza
delle prime produzioni della scuola “protolucana” (Pittore di Amycos), ma
anche dei prodotti di grandi ceramisti attivi nella colonia di Thurii (Pittore delle Carnee e il
Pittore della Nascita di Dioniso). La città conserva una posizione di rilievo anche in età romana
quando divenne civitas sociorum, come attestano le emissioni monetali in
argento e in bronzo di III sec. a.C. con legenda in greco
ΚΑΙΛΙΝΩΝ. Relative a questo periodo sono anche alcune strutture abitative che
testimoniano l'espansione della città su buona parte del pianoro. Sul finire del III sec. a.C. si è constatato un
progressivo impoverimento dei corredi, segno di una crisi del centro forse
anche per la progressiva ascesa della città di Barium, le cui strutture
portuali vengono sempre più potenziate. Le uniche testimonianze relative
all'occupazione dell'area in età tardorepubblicana provengono dagli scavi condotti
in località Sant'Angelo, dove sono state portate alla luce numerose
cisterne e fosse di scarico databili tra il III e il I secolo a.C. Inoltre in
località San Nicola lo scavo ha permesso di documentare una
frequentazione arcaica e classica, alla quale si sovrappongono tombe del III
secolo a.C. coperte poi da uno strato di tufina pressata che dimostra una
nuova destinazione abitativa dell'area in età tardorepubblicana, confermata
ulteriormente dal rinvenimento di resti di un'altra abitazione articolata in
più ambienti e datata alla stessa fase. Nella riorganizzazione del territorio effettuata a partire
dalla guerra sociale (89 a.C.), la città strutturata a municipio viene
ascritta alla tribù Claudia, insieme a Barium e Rubi.
Probabilmente in questo periodo venne posta sotto la guida
di quattorviri, così come è attestato da un'iscrizione di I secolo d.C. In età imperiale con
la costruzione della via Traiana, si
assiste allo sviluppo dello scalo portuale di Barium, che contribuisce
alla decandenza di diversi centri della Peucezia interna tra
cui Caeliastessa. Delle vestigia dell'antica Caelia sono visibili alcune
necropoli e sparuti lacerti della cinta muraria. |
Norba Apula Fu un antico insediamento fondato durante l'età del ferro. La cittadina fu fondata dalle popolazioni indigene dell'Apulia (iapigi o peuceti) su una delle prime alture
delle Murge, in posizione tale da dominare la
campagna circostante fino alla costa adriatica. Le origini
dell'insediamento sono ascrivibili almeno all'età del ferro, quando fu realizzata una
possente cortina muraria in pietra che circondava interamente l'acropoli. L'ubicazione nei pressi di
un'antica via di comunicazione che in epoca romana sarebbe stata
chiamata via Minucia Traiana,
rese Norba un abitato fiorente, al centro dei traffici tra le colonie magnogreche della costa e le
popolazioni indigene dell'interno. L'ampia necropoli risalente al VI secolo a.C. ha restituito infatti
decine di tombe con ricchi corredi funerari, in parte di matrice ellenica. Nel 268 a.C., con
l'estensione dell'egemonia romana in Peucezia, anche Norba perse la propria
autonomia; ciò nonostante, mantenne un ruolo rilevante anche sotto la
dominazione di Roma, come attestato dai cospicui ritrovamenti di monete,
armature, manufatti in terracotta e gioielli negli scavi archeologici
compiuti dentro e fuori la cinta muraria. La stessa Tavola
Peutingerianariporta il toponimo Norba, ma l'abitato non
sopravvisse alla dissoluzione dell'impero, venendo presumibilmente distrutto
dai Visigoti che invasero l'Apulia
nell'anno 411. Il centro indigeno si trovava sulla
via Minucia, variante interna della via Traiana costiera, frapponendosi
agli abitati di Azetium (presso Rutigliano) e ad Veneris (di
incerta identificazione). Superato il quale la strada si dirigeva verso la
città costiera di Egnazia. La località tuttavia fu presto popolata, sebbene con altro nome:
già nel V secolo è infatti attestato il
toponimo di Casale Cupersanem, che ha dato origine alla Conversano
attuale. |
CONVERSANO Dell'antica Norba si conservano importanti resti delle possenti
mura di fortificazione in opera poligonale che circondavano l'acropoli della città antica.
Recenti scavi archeologici operati
attorno all'abitato hanno riportato alla luce nuovi reperti, tra i quali
corredi funerari di età preclassica e i resti della via Minucia Traiana. |
Parco archeologico di Monte Sannace Si trova sulla sommità di una collina nota appunto come Monte Sannace, a circa 5 km dalla
città. Il sito archeologico ha rivelato i resti di un abitato degli
antichi Peuceti risalente al X secolo a.C., di cui si ignora il toponimo originario (si pensa
all'antica Thuriae, Θούριαι in greco antico, citata da Tito Livi). Molti dei reperti sono esposti nel museo archeologico nazionale di Gioia del Colle,
situato all'interno del castello
normanno-svevo della stessa cittadina. Come la maggior parte dei centri dell'antica Peucezia, l'abitato di Monte Sannace si
localizza la dove vengono soddisfatte le esigenze della popolazione; queste
sostanzialmente sono costituite da clima ed esposizione, le possibilità di
difesa naturale, la disponibilità di terra coltivabile e la facilità di
collegamento con gli altri centri abitativi. Per i Peuceti, quindi, il mare riveste
una scarsa attrazione, è piuttosto funzionale alle necessità dei più
importanti centri dell'interno. Ubicato nel centro delle Murge Pugliesi, l'altopiano
terrazzato di origine carsica che occupa parte delle attuali provincie
di Bari e Taranto,
domina la sella di Gioia del Colle ed è posto
sullo spartiacque tra Ionio e Adriatico, in posizione strategicamente
favorevole. Dall'alto del colle, che si innalza fino a 382 m s.l.m., si domina un vasto territorio,
dal mar Adriatico a Nord, alla costa ionica a Sud, fino ai monti della Lucania ad Ovest. Il colle culmina
con un altipiano di forma pseudo circolare con fianchi ripidi ed impervi
sulla maggior parte dei lati. La zona attorno al colle era particolarmente idonea alle
coltivazioni agricole, favorite da abbondanza di acqua. Esisteva a quei
tempi, infatti, un corso d'acqua che, lambendo il lato Nord della collina,
sfociava nel mar Adriatico, in prossimità dell'odierno centro di Fasano. Essendo questo anche navigabile,
rappresentava una veloce via di collegamento con il mare e gli approdi
costieri. Diversi tratturi, inoltre,
collegavano Monte Sannace con gli odierni centri di Polignano a Mare e di Mola di Bari, passando per i territori
di Conversano e Rutigliano, verso Nord-Est, e con Altamura, Gravina di Puglia, Serra di Vaglio verso
Ovest, dai quali poi si raggiungeva il mar Ionio all'altezza di Metaponto. Oltre alla favorevole posizione geografica, il colle era ricco
di una rigogliosa vegetazione, costituita prevalentemente da foreste caducifoglie, di querce e di lecci sempreverdi, con fitta
presenza di fauna selvaggia, a differenza dell'attuale paesaggio, modificato
dagli insediamenti umani e dalle pratiche agricole (la superficie boschiva è
stata molto ridotta). Le caratteristiche del bosco, tuttavia, restano
immutate in quanto tipiche dell'ambiente delle Murge: alle specie autoctone
della macchia e del sottobosco, si uniscono le colture arboree di mandorli e ulivi coltivati dall'uomo fino a
tempi recenti. Le prime tracce di frequentazione del sito risalgono al Neolitico. La prima documentazione che
attesti un insediamento vero e proprio risale però al IX secolo a.C., e perdura, con brevi
interruzioni, fino al periodo ellenistico-romano (I secolo d.C. circa). Fino all'VIII secolo a.C. Nella prima età del Ferro, tra il IX e il VIII secolo a.C., l'abitato consisteva di
un agglomerato di capanne in paglia e fango, con pavimenti in argilla,
occupante la sommità della collina, oltre ad altri piccoli stanziamenti
disseminati nella pianura circostante. Si tratta sostanzialmente di gruppi
legati all'attività agricola. VII-VI secolo a.C. Tra il VII e il VI secolo a.C., l'abitato situato in cima
alla collina comincia a acquisire importanza rispetto a quelli nella pianura,
dai quali la popolazione si sposta, ad eccezione dell'abitato di Santo Mola
che mantiene la propria autonomia, funzionale all'estrazione del tufo dalle
cave presenti in quell'area. L'abitato comincia ad assumere una fisionomia
urbana, probabilmente munito di una prima cinta muraria di
difesa, che borda la collina. Compaiono complessi abitativi e edifici
pubblici con funzione politica e religiosa, mentre vengono avviati i primi
rapporti commerciali organizzati tra il mondo peuceta e la Grecia, in particolare con Corinzio. Altre case e tombe vengono
costruite nella piana ad Ovest, l'abitato ormai assume l'attuale configurazione,
articolato in due zone, acropoli e
città bassa. Gli edifici sono prevalentemente a pianta rettangolare con fondamenta in pietra, e si
arricchiscono in alcuni casi di decorazioni architettoniche policrome. Anche la struttura sociale
subisce i cambiamenti provocati dai contatti con l'ellenismo: la società di Monte Sannace,
già nel VI secolo a.C.,
è articolata in differenti classi sociali, come dimostrano le differenti
tipologie di tombe appartenenti a questo periodo, e si assiste ad un primo
accentramento delle ricchezze e gestione del territorio da parte di pochi
ristretti gruppi aristocratici. V secolo a.C. La città è interessata da una continua crescita fino al V secolo a.C., quando comincia un periodo
di conflittualità, come il resto delle popolazioni della Puglia interna, per mantenere
l'indipendenza dalla colonia greca di Taranto. Il periodo di oscurantismo si
ripercuote su un decadimento artistico e ridotta quantità di materiale
ceramico ascrivibile a questo periodo, con ridottissime importazioni di
materiali dalla Grecia. |
L'area archeologica si raggiunge al Km 4,5
della strada provinciale "Gioia del Colle - Turi" (SP 61), GIOIA DEL COLLE L'importanza archeologica della località era nota fin dal settecento grazie ad alcuni
documenti e ritrovamenti fortuiti, perlopiù di tipo clandestino da parte dei
contadini della zona. La prima campagna regolare di scavi archeologici risale
solo al 1929, per iniziativa dell'Ente
Provinciale per la tutela dei monumenti in Terra
di Barie diretto da Michele Gervasio, allora direttore del Museo barese . Lo scavo porta alla luce alcune
sepolture ed un tratto della cinta muraria della
città. Nel 1957 le campagne di
scavo assumono una maggiore regolarità sotto la tutela della Soprintendenza alle Antichità della
Puglia e del Materano e la direzione di Bianca Maria Scarfì e si protraggono
fino al 1961 . Questi interessano la zona
pianeggiante dell'insediamento e quindi l'area dell'acropoli, portando alla luce la maggior
parte dell'abitato situato in pianura, un lungo tratto della seconda cinta
difensiva con la porta Nord, numerose tombe e diversi edifici dell'acropoli. Una nuova campagna di scavi viene avviata nel periodo 1976-1977 sotto
la direzione di Ettore M. De Juliis, in concomitanza con l'inizio dell'iter
amministrativo per la tutela dell'area, con l'acquisizione di parte di essa
al demanio dello Stato. Si portano alla luce ancora abitazioni e tombe nella
zona bassa, mentre tra il 1978 e il 1983 si
scava nella zona dell'acropoli, rinvenendo una grande casa aristocratica,
altre tombe, alcune delle quali monumentali ed affrescate, gran parte di un
edificio pubblico e un complesso abitativo di età arcaica. I risultati degli
scavi sono pubblicati nel 1989. Il sito
archeologico viene aperto al pubblico nel 1977. A partire dal 1985 gli interventi
della Soprintendenza sono mirati perlopiù alla conservazione e alla
valorizzazione del sito, quindi con opere di restauro e manutenzione delle
strutture antiche e dei luoghi nel loro complesso, nella realizzazione della
viabilità interna e delle attrezzature del parco, e nel restauro di un
edificio rurale ottocentesco, la masseria Montanaro, situato in
prossimità dell'ingresso, adibito a centro di accoglienza dei visitatori e di
orientamento alla visita. Nel 1994 sull'acropoli
è stato insediato un campo di attività della Scuola di Specializzazione per
archeologi dell'Università di Bari,
come campo di attività pratica per gli studenti, volta al rinvenimento di
nuovi reperti e alla ulteriore valorizzazione del sito. IV-III secolo a.C. Tra la seconda metà del IV e il III secolo a.C. la città risorge a
nuovi fulgori. Questo è il periodo di maggior splendore e ricchezza: le
primitive mura intorno all'acropoli, costituite da blocchi informi di pietra,
vengono rinforzati con tufo carparo a perfetta isodomia (1° circuito, lungo 1400
metri), mentre una seconda cerchia viene costruita per cingere città alta e
città bassa (2° circuito, lungo 1700 metri); intorno al 300 a.C. viene costruito un terzo
circuito di mura (3° circuito, lungo 1300 metri) intorno all'acropoli, ad
integrazione delle fortificazioni già esistenti. La città si espande
ulteriormente occupando gli spazi in pianura adibiti a pascolo inclusi nel 2°
circuito di mura e aree all'esterno della cinta difensiva, articolandosi in
isolati distribuiti attorno a strade. Con l'espansione dell'abitato,
l'acropoli diviene sede di edifici pubblici (un portico colonnato che borda
il lato orientale dell’agorà) e di residenze
aristocratiche, nonché di tombe monumentali. Inoltre reperti archeologici
testimoniano una ulteriore ellenizzazione della cultura, con la comparsa del
bilinguismo, sebbene limitato alle classi più aristocratiche. Nel corso delle guerre puniche (III secolo a.C.), la città e i pascoli
circostanti vengono cinti da un quarto (4° circuito, lungo 3900 metri) ed un
quinto circuito di mura (5° circuito, lungo 5500 metri). La tecnica rozza di
costruzione suggerisce che probabilmente esse fossero legate a impellenti
necessità difensive piuttosto che per fenomeni di espansione edilizia. La città, verosimilmente, fu distrutta intorno al III secolo a.C., nel momento del suo
massimo sviluppo, come testimoniato da reperti archeologici contenenti tracce
della fine violenta della città connessa alle spedizioni punitive dei romani contro
chi aveva, anche indirettamente, appoggiato le truppe di Cartagine; pare, comunque, che l'abitato
di Monte Sannace abbia mantenuto un atteggiamento neutrale nei confronti
delle due potenze, non gradito dalle mire egemoniche della Repubblica romana. Epoche Successive L'acropoli è stata occupata fino al I secolo d.C., mentre l'abitato in
pianura perde importanza già dal II a.C.. Nel periodo della romanizzazione l'insediamento
di Monte Sannace perde importanza: il territorio (la Peucezia interna) si
trova escluso dalle principali arterie potenziate dai Romani. Pochissime
tracce testimoniano la presenza di civiltà nel periodo romano. La località
viene quindi abbandonata e resta disabitata per secoli. Le ultime tracce di
occupazione risalgono al medioevo, quando
viene eretta sulla collina una chiesetta dedicata a Sant’Angelo,
i cui muri di fondazione sono stati individuati nella zona alta del pianoro.
La chiesa citata su un documento del 1087 verrà
anch'essa abbandonata. |
Neapolis Nel marzo del 1785 il vescovo di
Polignano Mattia Santoro rinvenne nel suo orto un
enorme sepolcro dipinto a motivi floreali.
Il suo ricchissimo corredo funerario constatava di 64 manufatti, tra cui i
resti di un'armatura con elmo bronzeo e quattro monumentali esemplari di
ceramiche figurate. I reperti di maggior pregio, una sessantina, fra cui
un cratere a
volute a figure rosse del IV secolo a.C. alto più di un metro,
furono donati da Mons. Santoro a re Ferdinando IV che
li collocò nel Reale Museo
di Capodimonte. I vasi di Polignano vennero dichiarati in un
dispaccio reale essere «il più prezioso ornamento del Real Museo» partenopeo
da cui mutuò il nome il grande cratere, che venne chiamato Gran Vaso di Capodimonte. Vi erano, poi,
due grandi anfore figurate ed una
pregevole loutrophoros.
Dopo l'occupazione francese di Napoli e la dispersione del patrimonio
vascolare del Museo Reale di Capodimonte, tre dei quattro grandi vasi
finirono nelle collezioni di alcuni fra i più prestigiosi musei del Mondo nei
quali sono stati recentemente identificati a seguito della pubblicazione
dello studioso Giuseppe Maiellaro, L'Assemblea
Divina (2015). |
POLIGNANO A MARE A seguito della meticolosa e documentata ricostruzione del
percorso del Gran Vaso di Capodimonte da Polignano a New York, il Metropolitan
Museum di New York ha riconosciuto ufficialmente Polignano a
Mare come luogo d'origine del cratere. Le due grandi anfore di tipo
panatenaico sono invece ubicate presso il Louvre di Parigi ed il Museo
Archeologico di Francoforte sul Meno. Unico vaso ad essere rimasto in
Italia presso il Museo
Archeologico di Napoli è la loutrophoros. Il grande vaso per
abluzioni nuziali (loutrophoros), è
stato esposto nella città dell'antico ritrovamento, in una
mostra tematica (2016) presso Palazzo San Giuseppe dal nome "La Scoperta di Mons. Santoro dal Mito alla
Realtà" curata da Giuseppe Maiellaro ed organizzata
dallo stesso con il Comune di Polignano a Mare ed il Museo Archeologico di
Napoli. Nel corso degli scavi di Monsignor Santoro vennero ritrovate parecchie monete bronzee con l'iscrizione dorica NEAP, recanti le effigi di Dioniso, Demetra, Artemide ed altre, che insieme ai sontuosi corredi funerari attestano il ruolo strategico esercitato sul litorale adriatico dall'antica Neapolis Apula. |
Azetium LA
STORIA Fu un antico insediamento attestato archeologicamente a partire
dall'età del ferro nell'odierna Puglia
centrale. L'area archeologica, tuttora caratterizzata dalla presenza delle
mura di difesa di epoca classica (IV secolo a.C.), si trova a Nord - Est
dell'odierno abitato di Rutigliano, in contrada Torre Castiello. Il sito archeologico di Torre Castiello, ubicato sul poggio
omonimo a Nord-Est della cittadina barese di Rutigliano, conserva le rovine
della città peuceta di Azetium, che
precorse la nascita dell'attuale borgo medievale. L'insediamento, che ha
restituito tracce di frequentazione umana che risalgono all'età neolitica, fu occupato sporadicamente
a partire del Bronzo Finale (XI - VIII secolo a.C.) e durante la
successiva età del Ferro.
La bassa collina, che racchiude un'area oggi intensamente coltivata a vigneti a tendone, è lambita sul suo
margine meridionale e sud-occidentale da un solco erosivo di origine carsica,
anticamente percorso dalle acque, e noto come Lama di Mosca - Giotta. Oltre ad aver
fornito le risorse idriche necessarie al fabbisogno delle genti che si
stanziarono sui pianori prospicienti, l'ampia e scoscesa vallata del torrente carsico costituì per
l'insediamento una difesa naturale. Il promontorio
assunse fisionomia urbana probabilmente soltanto a partire dall'età classica, allorché venne eretto un
poderoso circuito murario in
buona parte tuttora conservato in situ. Infatti, attorno alla seconda
metà del IV secolo a.C.,
le ostilità che contrapposero la città magno-greca di Taranto alle popolazioni dei
villaggi messapi e peuceti della
Puglia centro-meridionale contribuirono a fare in modo che la maggior parte
dei centri indigeni si dotasse di ben più sicure opere di fortificazione e di
difesa. Il pianoro di Castiello risulta infatti tutt'oggi circondato da
un'imponente muraglia della lunghezza complessiva di 3450 metri, costituita
da un doppio paramento con émplekton centrale di riempimento.
La fortificazione è composta da enormi blocchi isodomici di base (in opera poligonale) assemblati a secco, sovrastati da conci di misura
via via inferiore. A seconda dello stato di conservazione, la sua altezza
varia fra i 4 ed i 6 metri, mentre la profondità, in alcuni punti, raggiunge
picchi di 5 metri. Lungo il perimetro, la cintura muraria presenta alcuni avancorpi a pianta quadrata e doveva
essere intervallata da torri di vedetta: se ne conservano alcune sul versante
esposto a Nord, fra cui l'erta "Torre Belvedere". Sul margine
settentrionale, le mura raggiungono infatti dimensioni considerevoli e sono
affiancate da una cortina esterna che corre parallela ad essa nella direzione
in cui l'abitato si protende verso l'Adriatico e pertanto doveva
risultare maggiormente aggredibile. Sul versante meridionale, invece, la
muraglia si mostra meno robusta, essendo direttamente affacciata sulla forra
della lama di Mosca da
cui è naturalmente difesa. L'ingresso alla città da Sud era assicurato da un viadotto
conosciuto localmente come "Ponte Romano", il quale consentiva di
scavalcare agevolmente il profondo solco torrentizio. Lo sconvolgimento dell'assetto
idrogeologico del territorio, in gran parte dovuto alle trasformazioni
agrarie dell'ultimo secolo (impianto di viti da tavola a tendone), ne determinò
l'inesorabile crollo durante una poderosa piena alluvionale, occorsa nel
gennaio del 1984. L'insediamento dovette assumere fisionomia propriamente urbana
durante l'età classica, periodo al quale si attribuiscono diverse sepolture a
fossa, a semicamera e a cassa litica, la maggior parte delle quali già
depredate al momento del rinvenimento. La continuità di vita del centro indigeno è ben documentata
in epoca ellenistica, quando probabilmente
in cima al pianoro era collocata l'acropoli che ospitava un edificio di
carattere pubblico, ipotizzato sulla scorta dei numerosi rocchi di colonne
con scanalature rinvenute in passato in posizione di crollo (oggi
irreperibili). In epoca repubblicana il
centro continuò a svilupparsi, avvantaggiandosi della sua collocazione lungo
un percorso viario noto come "mulattiera di Strabone", identificato
con la via Minucia, variante interna della via Traiana subcostiera. Tale
arteria collegava Bitonto ad Egnazia passando per i centri
intermedi di Caelia (Ceglie del Campo), Azetium (Rutigliano) e Norba (Conversano). Inoltre era adeguatamente
dotata di percorsi secondari che la collegavano alla costa adriatica, tuttora
ravvisabili nelle diverse strade vicinali che dalla contrada di Castiello
conducono sino al litorale (località "Cala Paduano", probabile
sbocco portuale azetino, oggi fra Torre a Mare e Mola di Bari). Il toponimo della città archeologica, di probabile origine
paleo-italica (da Ausetium), si desume da diverse fonti di età imperiale
(Plinio il Vecchio,
l'Anonimo Ravennate,
Guidone) e dalla fondamentale Tabula
Peutingeriana o Todosiana (III-IV secolo d.C.), che riporta
"Ehetium" (donde "Azetium", italianizzata in Azezio) come
dislocata sulla direttrice interna di origine indigena prima menzionata, a
metà strada fra "Celia" (Ceglie) e "Norve" (Conversano). La
sopravvivenza della città è documentata, ma solo sporadicamente, sino alla
tarda età imperiale (V-VI secolo d.C.) attraverso rinvenimenti
ceramici di superficie. |
L'antico abitato di Azetium sorge
su una modesta altura, in località Torre Castiello, circa 2,5 km a
nord-est di Rutigliano, RUTIGLIANO L'antico abitato di Azetium sorge su una modesta
altura, in località Torre Castiello, circa 2,5 km a nord-est di
Rutigliano. Il primo studioso moderno che ne riporta la localizzazione è
il Romanelli nel 1818.
Infatti, le prime notizie relative a questo insediamento, noto per la
sopravvivenza del circuito murario, risalgono agli inizi del XIX secolo e sono per lo più
segnalazioni di rinvenimenti fortuiti, non localizzati con precisione, o
acquisti di materiali archeologici da parte di musei regionali o, ancora,
sequestri in relazione a scavi clandestini. I primi interventi di scavo,
effettuati dal paletnologo Franco Biancofiore, risalgono al 1955 e
vengono effettuati lungo il settore nord della fortificazione. La ceramica
rinvenuta indica fasi di vita dell'abitato comprese fra l'età del Bronzo Finale e
l'età tardoellenistica e repubblicana. Le prime tracce di frequentazione ad Azetium sono
rappresentate da alcuni frammenti di ceramica neolitica,
raccolti in superficie nella parte meridionale della collina, probabilmente
da porre in relazione con il vicino insediamento di Torre delle Monache,
situato sulla sponda opposta della Lama Giotta. Più cospicua è la presenza
di ceramica della prima età del Ferro, particolarmente
concentrata nella zona settentrionae del promontorio. Si tratta di frammenti
di vasi d'impasto bruno e nero lucido, e di resti di intonaco, che testimoniano
l'esistenza di un insediamento stabilem costituito con ogni probabilità da un
piccolo nucleo di capanne d'argilla e
paglia, del tipo già attestato in numerosi villaggi iapigi disseminati nel territorio. Con l'inizio dell'età storica le testimonianze di
vita sul pianoro si diradano notevolmente, concentrandosi invece nelle zone
adiacenti, a sud-est, dove si riscontra la presenza di abbondante ceramica di
età arcaico-classica e di coppi dipinti in rosso di tipo laconico (contrada Petruso, Pappalepore, Le
Rene). Ciò rende credibile l'ipotesi secondo la quale, in questa fase
storica, la zona pianeggiante a sud-est della collina
di Azetium doveva corrispondere alla sede di uno o più nuclei
insediativi, dotati di edifici con fondazioni in pietra e coperture fittili
policrome. Una nuova fase di occupazione del promontorio si apre nel IV secolo a.C., protraendosi per tutta l'età ellenistica, e corrisponde al
periodo di massima espansione edilizia ed economica dell'abitato, che assume
ora una fisionomia propriamente urbana. I rinvenimenti fortuiti proseguono spesso in occasione di lavori
agricoli o dovuti a studiosi locali. Fra di essi si segnala il rinvenimento
di una tomba databile al IV sec. a.C. e di un tesoretto di
80 denarii di età repubblicana. Alla fine degli anni '70 si individua una cisterna a fiasca genericamente
databile, in base alla ceramica e a tre monete presenti nel suo interno, all'età imperiale. Negli anni '80 riprendono
gli scavi nel settore nord delle mura e vengono individuate e scavate otto
tombe a fossa databili fra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., periodo al quale di
ascrive la costruzione della fortificazione e il maggior sviluppo
dell'abitato. Il sito di inestimabile valore storico-archeologico (oltre che
ambientale e paesaggistico, per via dell'adiacente habitat naturale
della lama) versa
in colpevole stato di abbandono, in preda alle deturpazioni operate
periodicamente dai coltivatori diretti che, in barba alle norme di tutela del
sito archeologico istituite dagli anni ottanta del secolo scorso, seguitano a
incrementare le piantagioni di vigneti a tendone, eseguendo finanche i
proibiti e dannosi derocciamenti ("scassi")
con frangipietre e arature profonde. Le stesse spesso riportano alla luce
frammenti di ceramiche di pregio con tracce di decorazioni, insieme ad anse e
altre porzioni di recipienti di ceramica d'uso. |
Siti Archeologici della Provincia
Barletta-Andria-Trani |
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Dolmen
della Chianca E’ un imponente monumento megalitico preistorico, risalente
all'età del bronzo. Il
nome Chianca deriva dal termine dialettale
biscegliese chienghe, cioè lastra di pietra o di lava. In alcuni testi,
e su alcune guide, il dolmen della Chianca viene indicato con il nome
di dolmen di Bisceglie; con tale nome è anche identificata l'area di
servizio sull'autostrada A14 in
direzione Bari dove in passato esso poteva essere visitato dopo un breve
tragitto a piedi, mentre attualmente si può raggiungere attraverso la SP 85. È opportuno tener presente che nel territorio biscegliese si
trovano altri due monumenti megalitici dello stesso tipo: il dolmen di Albarosa e
il dolmen della masseria
Frisari. La costruzione fu scoperta dagli archeologi Francesco Samarelli
e Angelo Mosso il
6 agosto del 1909, in località "la Chianca"
nel territorio di Bisceglie, in una
zona distante dal Pulo di Molfetta di qualche
chilometro vicinissima ad una lunga e profonda valle denominata "lama di
Santa Croce", ricca di grotte che furono sede di frequentazione umana in
più fasi. I primi scavi furono condotti dagli scopritori al momento del
rinvenimento e furono proseguiti dall'archeologo Michele Gervasio negli ultimi mesi
del 1910. Quando il dolmen fu scoperto i contadini del luogo avevano già
rimosso tutto prima degli scavi, anche se alcune tracce dei mucchi di
pietrame e di terriccio che coprivano la costruzione erano evidenti agli
occhi degli archeologi. |
BISCEGLIE La costruzione megalitica, rientrante nella tipologia delle
tombe dolmeniche a galleria ed a corridoio all'interno di tumulo ellittico, è
costituita da una cella sepolcrale quadrangolare, formata da tre lastroni
verticali in pietra calcare locale
(Chianghe), di cui due sono disposti come pareti laterali ed uno come parete
di fondo. EVENTI: Il dolmen della chianca è sempre stato un elemento di
aggregazione di genti e culture diverse, che spesso ne hanno attribuito
significati e valori simbolici sul piano antropologico, culturale ed
economico. Da anni si svolgono intorno ad esso manifestazioni culturali. |
Dolmen di Albarosa E’ un monumento megalitico preistorico, risalente
all'età del bronzo,
ubicato nel territorio di Bisceglie in Puglia, a 109 m sul livello del
mare. Il nome Albarosa deriva dal casale di Albarosa e
dall'omonimo altipiano, prossimo al crepaccio della Lama di Santa Croce, di
proprietà della famiglia Berarducci, in cui sorgeva un
enorme specchione entro cui fu rinvenuto il dolmen. Il megalite fu scoperto nel 1909 dall'archeologo Francesco
Samarelli, nello stesso periodo in cui si svolsero le indagini
archeologiche degli altri due dolmen ad esso vicini: il Dolmen della
Chianca ed il Dolmen Frisari. |
Si raggiunge percorrendo per circa
4.7 km in direzione Ruvo di Puglia la S.P. 86 Bisceglie - Ruvo di Puglia e imboccando sulla
destra una strada rurale che conduce, in direzione di Lama Santa Croce,
al megalite, BISCEGLIE Il dolmen rientra
nella tipologia a corridoio entro tumulo ellittico lungo 19 m e largo 16 m,
con orientamento del dromos sull'asse est – ovest. |
Dolmen Frisari E’ un monumento megalitico preistorico, risalente
all'età del bronzo,
ubicato nel territorio di Bisceglie in Puglia, a 100 m sul livello del
mare. Rispetto agli altri dolmen presenti nell'agro biscegliese, sorge
a poco più di 3 km dal Dolmen della
Chianca e a circa 2.5 km dal Dolmen di Albarosa. Il nome Frisari deriva dalla proprietà del fondo in
cui il dolmen è stato scoperto. Fino ai primi del Novecento il terreno era di
proprietà del senatore Giulio Frisari. Il megalite fu scoperto nel 1909 dall'archeologo Michele Gervasio, nello stesso periodo in
cui si svolsero le indagini archeologiche degli altri due dolmen ad esso
vicini: il Dolmen della
Chianca ed il Dolmen di Albarosa. |
Si raggiunge percorrendo per circa
4.5 km in direzione Ruvo di Puglia la S.P. 86 Bisceglie - Ruvo di Puglia e imboccando sulla
sinistra una strada rurale che conduce, in direzione di Lama d'Aglio,
al megalite, BISCEGLIE Il dolmen, del tipo a galleria con
orientamento est – ovest, risultava composto da una cella, larga circa
2 m, che si sviluppava su una lunghezza di circa 3,65 m. |
Basilica di San Leucio E’ stata una chiesa del VI secolo di Canosa di Puglia (provincia
di Barletta-Andria-Trani), sorta su un tempio di età ellenistica dedicato
a Minerva. L'edificio, inizialmente
dedicato ai santi Cosma e Damiano,
fu ridedicato a san Leucio in
epoca longobarda. In antico Canosa è stato un florido centro commerciale e
artigianale specializzata nella produzione di ceramiche e lana. Con lo
sviluppo delle poleis magno greche subisce influenze di cultura
ellenica, sia dal punto di vista morfologico che urbanistico, infatti doveva
essere territorio ideale per la fondazione di una polis greca. I primi
contatti con Roma sono visibili durante le guerre sannitiche, quando la
giovane repubblica romana giunge in Puglia, sconfigge le popolazioni
autoctone e il centro canosino è costretto a stringere un Foedus con Roma precisamente
nel 318 a.C . Da questa data in poi subirà un processo di romanizzazione e
rimarrà sempre fedele a Roma divenendo Municipium e colonia.Proprio
in questo contesto storico si colloca l’antico tempio sotto San Leucio,
databile tra la fine del IV e la prima metà del III sec a.C. Caratterizzato
da una pianta etrusco-italica, (esempi di questo tipo li ritroviamo a Roma di
proporzioni enormi come il tempio di Giove Capitolino). Il tempio è
costituito da alto podio sagomato cui si accedeva mediante scale centrali.
Proprio nella facciata ai lati dell’ingresso dovevano essere situati i due
enormi Telamoni. Costituito esternamente da colonnato ionico, sormontato da
un fregio dorico, a metope e triglifi su cui dovevano essere rappresentati i
pezzi d’armatura. Internamente invece, la seconda fila di colonne doveva
essere costituita da capitelli figurati come la testa femminile che emerge da
cespo di acanto e compresa tra volute. Il preesistente edificio pagano, probabilmente abbandonato
dal IV secolo, doveva essere ancora in piedi
e fu sottoposto a una sistematica opera di riuso dei materiali edilizi in
occasione della costruzione della chiesa, che si impiantò sulle fondazioni
del tempio. La chiesa, intitolata ai santi Cosma e Damiano fu edificata
nel VI secolo ad opera del vescovo Sabino. La pianta della basilica consiste in un "doppio tetraconco":
un grande quadrato esterno, realizzato con muratura continua e dotato di
quattro absidi semicircolari al centro di ciascun
lato, al cui interno è inserito un secondo quadrato concentrico, costituito
da pilastri e con le quattro absidi delineate da un giro di quattro colonne.
I due quadrati vengono a delimitare un ambulacro a quattro bracci coperti
da volta a botte,
comunicante attraverso i passaggi tra i pilastri con lo spazio centrale,
coperto in origine da una volta a padiglione;
le absidi erano invece coperte da volte a semicupola. Questa disposizione
richiama quella della basilica
di San Lorenzo maggiore a Milano. I pavimenti erano decorati da
mosaici geometrici, ma venne anche riutilizzato in alcuni punti il mosaico a
ciottoli che apparteneva alla pavimentazione del tempio ellenistico.
L'accesso avveniva, per mezzo di una gradinata, dall'abside orientale, mentre
l'abside settentrionale era affiancata da ambienti di servizio. |
CANOSA DI PUGLIA In seguito probabilmente ad un terremoto, che dovette causare il
crollo di parte del muro esterno e della copertura dello spazio centrale, fu ricostruita
e restaurata, ancora nello stesso secolo, con l'aggiunta di contrafforti
esterni e di nuovi pilastri a rinforzo delle colonne; al centro quattro nuovi
pilastri con colonne addossate sorressero la nuova copertura a cupola dello spazio centrale.
Nell'abside occidentale venne realizzato un altare con presbiterio e ciborio e i pavimenti vennero
decorati da nuovi mosaici. Nel corso del VII secolo tutta l'area intorno alla
chiesa e il braccio sud al suo interno furono occupati da una vasta area
sepolcrale. Nell'VIII secolo la
chiesa fu ridedicata a san Leucio, il culto del quale si era diffuso in
questa zona dopo la traslazione delle sue ossa da Brindisi a Trani. Mosaici Accedendo alla
basilica tramite la gradinata aperta al centro dell'abside esterna orientale,
si trova un mosaico a pelte sovrapposte in tessere nere; il tratto antistante
dell'ambulacro presenta un motivo a cerchi incatenati che generano figure
triangolari nere che compongono fiori a quattro petali. L'abside interna
corrispondente è pavimentata a girali con tessere nere, gialle e rosse. Il
resto del pavimento è decorato da due ampi mosaici con motivo a stuoia. Proseguendo a destra dell'ingresso, il braccio nord
dell'ambulacro è pavimentato a ciottoli: probabilmente qui ci si limitò a
risarcire la pavimentazione del precedente tempio ellenistico. A sinistra
dell'ingresso, il braccio sud dell'ambulacro presenta al centro, tra le
absidi, un tappeto con meandro a chiave in cui si inseriscono rombi. Si
conserva anche parte di un tappeto decorato con grandi fiori a quattro
petali, che formano quadrati dai lati curvilinei, e il mosaico dell'abside
esterna, con motivo a treccia. Il presbiterio con grande altare coperto da un ciborio davanti
all'abside occidentale è caratterizzato da mosaici sopraelevati rispetto al
pavimento della basilica. Dietro l'altare, i tappeti musivi sono costituiti
da piccoli rombi, ai lati invece da pelte affrontate, alternativamente
verticali e orizzontali. Lo spazio antistante è decorato con tondi accostati
di dimensioni diverse e con vari motivi decorativi: nodi di Salomone,
girandole, fiori a stella, corone. L'abside è decorata da un noto motivo di
tematica paradisiaca: due pavoni affrontati ai lati di un fiore posto su un
grande cesto di acanto da cui si originano rami giraliformi carichi di fiori
e frutta e popolati da uccelli, incorniciati da un motivo a treccia. Antiquarium Nell'Antiquarium, spazio espositivo aperto nel 2008 ed annesso
all'omonimo sito archeologico, la storia di questo monumento viene rivissuta
attraverso un percorso di visita articolato per sezioni cronologiche e
tematiche, accompagnate da una serie di pannelli esplicativi e da alcune
ricostruzioni grafiche e plastiche. Nella sala I sono esposti i materiali e le strutture
architettoniche del tempio di Minerva, reimpiegate in situ nella costruzione
della basilica paleocristiana: tra questi semicapitelli corinzi con protomi
di divinità, altri di ordine ionico, di grandi dimensioni, e i piedi di un
gigantesco telamone. Nella sala II sono esposti i reperti riportati alla luce durante
le diverse campagne di scavo: tra questi il materiale, sia votivo che
edilizio e d'uso, rinvenuto in un enorme "scarico" a sud del tempio,
testimonianza delle vicende legate al culto di Minerva. Tra i reperti di
epoca cristiana vi sono elementi in marmo dell'arredo scultoreo del ciborio e
i mattoni bollati con il monogramma del vescovo Sabino. |
Complesso Episcopale Periodo paleocristiano Costruzione IV-V sec. d.
C Un ambiente absidato, orientato ad ovest, accolse al suo interno
tre sepolture; un'intensa destinazione cimiteriale riguardò nel tempo sia lo
spazio antistante sia quello a sud di questo edificio. VI
secolo La Chiesa a tre navate, era preceduta da un ampio nartece,
fittamente occupato da sepolture, che costituiva il lato occidentale di
un quadriportico. A sud della Chiesa si sviluppava il palazzo episcopale
con uno spazio centrale scoperto e due gruppi di ambienti disposti sui lati
orientale e occidentale, uno dei quali era rivestito da un pavimento
costituito prevalentemente da mattoni recanti il monogramma del vescovo Sabino
impresso sul lato visibile e dotato, come il vano attiguo di un
camino-focolare. Ad est del palazzo episcopale era Collocato un ambiente
absidato a destinazione cimiteriale, il cui accesso era garantito mediante
un vestibolo collegato al portico antistante la Chiesa; i due corpi di
fabbrica erano separati da uno stretto corridoio, interamente occupato
da tombe sistemate in maniera regolare. Fine VI - VII sec. d.
C. Vita del complesso, trasformazioni – divisione degli ambienti
dell’episcopio, rinforzi angolari del portico dell’atrio – ed ulteriore
sviluppo dell’uso funerario. VIII - X sec. d. C Vita
progressivamente degradata ed uso cimiteriale del complesso; abbandoni e
riutilizzazione residenziale di alcuni spazi. |
CANOSA DI PUGLIA La Chiesa di S. Pietro risulta il primo complesso episcopale
Canosino in base alle notizie fornite dalla Vita di S. Sabino, operetta
agiografica degli inizi del IX sec. d. C. Sulla base delle notizie fornite
dalla Vita di S. Sabino, operetta agiografica degli inizi del IX sec. d. C.,
gli studi su Canosa paleocristiana identificano la Chiesa di S.
Pietro con il primo complesso episcopale Canosino. 74Le ricerche
archeologiche che dal 2001 si stanno conducendo sulla collina di S.
Pietro (in periferia), finora risparmiata dall'espansione edilizia e mai
sottoposta ad indagine stanno ascrivendo l'impianto di culto ad età
sabiniana (pieno VI sec. d. C.) Le strutture della Chiesa dovevano essere
ben visibili, sebbene allo stato di rudere, ancora nel XVIII sec., quando
l'area, ormai utilizzata come cava per il recupero di materiale
edilizio, venne occupata da orti e campi coltivati |
Salapia E’ stata un'antica città della Daunia, la cui diversa dislocazione sul
territorio si è accompagnata ad una trasformazione del suo nome. Trascurando la Elpia citata da Strabone, sulla quale è ancora tutto
nebuloso, Salapia è la città fondata sul finire del X secolo a.C. da gruppi
di Liburni approdati sulla costa
del Tavoliere di Puglia. È la Salapia vetus di
cui parla Vitruvio, tra gli
studiosi nota anche come la Salapia preromana. Nel I secolo a.C., divenuta palude
la laguna su cui si affacciava la città, i Salapini chiesero ed ottennero di
potersi trasferire a quattro miglia di distanza in una zona più salubre:
nasce così la Salapia romana, il cui nome piano piano si corroderà
in Salpia e poi in Salpi. Con quest'ultima denominazione è
ricordata anche come sede vescovile dal 314 al 1547,
allorché la diocesi di Salpi viene
soppressa e il suo territorio unito all'arcidiocesi di Trani. Il sito archeologico relativo all'antica Salapia si
trova nella parte meridionale del Tavoliere delle
Puglie, a pochi chilometri a nord-ovest di Trinitapoli. Si tratta della Salapia
vetus, citata in varie fonti letterarie, ma la cui ubicazione, incerta, è
stata alla fine individuata in contrada Torretta dei Monaci grazie all'aerofotografia
e agli scavi eseguiti a partire dal 1967. La Storia Le origini della città sono da riportare alla fine del X secolo
a.C., nell'ambito delle migrazioni di genti illiriche dalla costa dalmata a quella pugliese:
sulla base degli elementi emersi dall'indagine archeologica è stata avanzata
l'ipotesi che a fondare Salapia siano stati coloni liburnici della città di
Nin, i quali trovarono sul litorale pugliese lo stesso ambiente lagunare da
cui provenivano. La città si estendeva su tre “penisole” sporgenti nella laguna
e, in un'area di circa 9 km², vi era l'abitato, la necropoli e gli spazi
destinati al pascolo e alla coltura, utili in tempo di guerra. Il nucleo
abitativo principale si trovava nella penisola maggiore ed era difeso, dalla
parte del retroterra, da un bastione e un fossato. Salapia in origine era una
frazione o colonia di Canusium. L'attuale Canosa di Puglia. Dal punto di vista politico, Salapia come altri centri
della Daunia, era organizzata in città-Stato, in cui il potere era nelle
mani di una ristretta oligarchia. Conferma di questa autonomia politica viene
dalla coniazione di una propria moneta, su cui troviamo spesso i nomi dei
governanti del tempo. Al tempo della seconda guerra punica Salapia ebbe al proprio
interno due schieramenti, uno filoromano, guidato da Blattio, e uno
filocartaginese, con a capo Dasio. Quest'ultimo prevalse in un primo tempo,
tanto che Annibale soggiornò
a lungo a Salapia: qui ebbe una relazione con una donna del luogo, bollata
come prostituta da Plinio, che definì la città Oppidum Annibalis
meretricio amore inclutum. |
DAUNIA In un secondo momento Salapia decise di passare dalla parte
romana, cacciando il presidio cartaginese e ritornando a fianco di Roma (210
a.C.); con uno stratagemma Annibale cerca di entrare in città e
vendicarsi, ma non ci riesce. Successivamente Salapia sarà coinvolta nella guerra sociale,
durante la quale fu assediata dal pretore Caio
Cosconio, incendiata e quasi rasa al suolo. Alla metà del I secolo a.C., quindi, la città è in piena
decadenza, dovuta non solo alle vicende belliche e alle difficoltà
economiche, ma anche alle mutate condizioni ambientali. Infatti, la laguna su
cui si affacciava cominciò ad interrarsi per i detriti portati da vari corsi
d'acqua e a trasformarsi in una palude generatrice di malaria. I Salapini,
allora, grazie alla mediazione di un M. Hostilius– probabilmente
un patronus della città –, ottennero dal senato romano di potersi
trasferire a quattro miglia di distanza, in direzione sud-est, su di una
piccola altura, località oggi denominata “il Monte”, a ridosso delle vasche
delle Saline. La nuova città fu delimitata da mura e provvista, tramite un
canale, di un porto sul mare, le cui strutture dovevano trovarsi nell'area
dell'attuale Torre di Pietra. Nasce così la Salapia romana, che pian piano vedrà il suo nome
modificarsi in Salpia e poi in Salpi. La floridezza economica raggiunta dalla nuova città fa sì che
nel IV secolo ci appaia come sede vescovile: nel 314, infatti, Pardo,
vescovo di Salpi, insieme al diacono Crescente partecipa al Concilio di
Arles, in Gallia. E Pardo, allo stato attuale delle ricerche, è il
primo vescovo pugliese storicamente certo. Altri vescovi sono annoverati nel
V secolo, ma nell'Alto Medioevo la città non sfugge alla crisi che coinvolge
l'intero Occidente, per cui la civitas si riduce ad
un castrum, occupato in seguito dai Longobardi. In costante ripresa a partire dal Mille, Salpi, prima signoria
normanna e poi locus solatiorum prediletto da Federico II di
Svevia, vivrà una fase di particolare floridezza nei secoli XI-XIII, allorché
si ha anche la costituzione della Universitas hominum civitatis
Salparum. L'ultimo Medioevo, però, registra una crisi irreversibile della
città, la cui fine è sancita dalla soppressione della sede vescovile nel
1547. |
Siti Archeologici della Provincia di
Brindisi |
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L'area archeologica di San Pietro degli Schiavoni San Pietro degli Schiavoni è il nome del quartiere,
centralissimo, che ospitava una chiesa dedicata all'omonimo santo e
accoglieva gli abitanti di origine slava e albanese che furono protagonisti di
un'immigrazione già dalla seconda metà
del XV secolo. Nei primi anni sessanta furono
abbattute alcune abitazioni, per lo più fatiscenti, del quartiere con
l'obiettivo di realizzare il nuovo Palazzo di Giustizia, all'epoca ospitato
nel palazzo
Granafei-Nervegna. Furono scoperti resti della città medievale,
che furono distrutti dalle ruspe dell'epoca. Fermati i lavori del cantiere,
vennero svolti degli scavi sistematici ad opera della locale soprintendenza
archeologica. Al termine degli scavi si è portata alla luce un'insula della Brindisi di epoca romana. Nel 1967 il comune
aveva programmato di realizzare su quell'area il nuovo teatro comunale, ma
l'importanza della scoperta e il vincolo di conservazione imposto, portarono
ancora alla revisione del progetto. Il nuovo progetto del teatro Verdi,
opera dell'architetto Enrico
Nespega, fu quindi quello di un enorme edificio in acciaio,
"un teatro sospeso", in modo che l'intera area archeologica
rimanesse fruibile ai turisti e agli studiosi. |
Via Santi 1, BRINDISI |
Muro Tenente Muro Tenente era un sito fortificato messapico di medie dimensioni (circa
50 ha) come se ne trovavano nel Salento nel periodo precedente la
colonizzazione romana (dall'età del ferro al IV-III secolo a.C.). Dalle indagini archeologiche del territorio
di Muro è emerso che la zona interna al ciglione era abitata già nel Neolitico, tra il IX e
il III millennio a.C. circa,
con una presenza molto marcata nell'Età del ferro, nell'VIII secolo a.C. Pochi e sparsi sono i manufatti
ritrovati dell'età mesolitica, neolitica e del bronzo.
Solo con l'età del ferro si
hanno abitazioni costituite da capanne e inizia una continuità abitativa che
porterà dalla estensione di circa 9 ettari (al centro del sito) fino ai 50 ha
circa dell'età ellenistica,
quando si ebbe la massima fioritura. La storia della civiltà messapica e quindi
di Muro Tenente cambia infatti quando cominciano a diventare più intensi i
contatti (e le forti tensioni) con i Greci. Verso la fine dell'VIII secolo a.C. gli Spartani fondano la colonia di Taranto; « essa porta ad una coesistenza e,
naturalmente, ad una integrazione di due culture diverse (quella greca e
quella messapica) durante i secoli successivi. I numerosi rapporti non sono
basati solo su scambi di merci ed oggetti, ma anche di idee, nozioni e
tecnologie. » (D. Yntema - Le ricerche dell'équipe olandese di Amsterdam
nell'area brindisina) A Muro Tenente sono stati condotti scavi da
parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia (anni 1981-1993)
che hanno fornito preziose notizie per lo studio degli insediamenti messapici
mettendo in luce numerose sepolture, strade, fornaci di epoca ellenistica e
fondazioni di vari nuclei abitativi, databili al IV secolo a.C. Anche gli scavi
condotti dalla Libera Università di Amsterdam (anni 1992-2002)
hanno evidenziato frammentari resti di case di età ellenistica (IV-III secolo a.C.) "dove si sono
riconosciute le strutture di ambienti affiancati, aperti su cortili interni
ed allineati lungo le strade, larghe circa m.4, che sembrano tracciate su
assi regolari. All'età ellenistica risalgono anche le fortificazioni di Muro Tenente, anzi
sono state proprio le mura,
che misurano 2.675 m "a fornire il toponimo all'intera località,
dal Medioevo in poi, chiamata
alternativamente Paretone/Paretalto e Muro". Con la conquista romana di Taranto (272 a.C.) inizia la
"romanizzazione" del Salento con una serie di campagne
militari. « Nel 244 a.C. i Romani installarono
nella città messapica di Brindisi un
gruppo di loro alleati di origine centro-italica. A partire da questo
momento Brindisi nella sua veste di colonia
latina funzionò da base romana nel Salento. In seguito all'incorporazione del
Salento nel mondo romano i Messapi, già ellenizzati si
trovarono coinvolti in un secondo processo di integrazione culturale. »
(J. Boersma, D. Yntema, Valesio, Fasano 1987, pag. 28) Con la colonizzazione romana comincia a Muro
Tenente una lenta decadenza che porterà ad una contrazione dell'abitato fino
all'abbandono totale nel periodo tardo-imperiale. « Quindi si deve concludere che dal
periodo romano, e soprattutto dal periodo imperiale non troviamo più
un'organizzazione spaziale di modello urbano: la vecchia città di Muro
Tenente non esiste più. » (G. J. Burgers, Le ricerche a tappeto: un
esempio di urban survey) La zona archeologica di Muro Tenente ha
quindi le caratteristiche di un "sito fortificato", come quelli
ritrovati ad Oria e a Valesio:
con una popolazione che raggiunse il massimo sviluppo attorno al III secolo a.C. e che, nelle
vicinanze delle abitazioni, aveva pascoli e terreni coltivati. Nel Medioevo nella zona si sviluppò un
casale chiamato Paretalto o Paretone. |
TRA LATIANO E MESAGNE Muro Tenente è situata a 2 km da Latiano e 5 km da Mesagne e ricade oggi sotto
l'amministrazione di quest'ultima. Questo oppidum messapico viene spesso
identificato con la Scamnum nota
dalla Tabula
Peutingeriana, ma la datazione di questo documento al IV secolo
d.C. sembra escludere tale ipotesi. Infatti, anche se nella Tabula
Peutingeriana Scamnum compare lungo la Via Appia come
ultima statio (stazione di posta) prima di Brindisi, l'insediamento messapico di
Muro Tenente non ha mai restituito reperti riferibili a questo periodo. L'area di Muro tenente è stata interessata da scavi archeologici
da parte della Soprintendenza Archeologica della Puglia a partire dagli anni sessanta. Dagli anni '90,
l'insediamento fortificato messapico è oggetto di studi da parte della Libera Università di Amsterdam sotto
la direzione scientifica del Prof. G.-J. Burgers. Da queste indagini è emerso
che la zona interna alla fortificazione risultava interessata da una presenza
stabile a partire dall'età del ferro (fine VIII secolo a.C.), quando
l'insediamento raggiunge i 9 ettari di estensione. In età arcaica e classica
l'area abitata non sembra estendersi oltre la superficie occupata nel periodo
precedente. Le testimonianze quantitativamente più consistenti appartengono
ad età ellenistica (IV-III secolo a.C.), quando viene eretta una seconda
cinta muraria a racchiudere un insediamento di circa 50 ha. Una delle
attrazioni più importanti di Muro Tenente è costituita proprio
dall'eccezionale stato di conservazione del circuito murario. Sopravvissuto
alla conquista romana del Salento (267-266 a.C.), l'insediamento sembra non
superare agevolmente la seconda guerra
punica, quando le testimonianze archeologiche documentano un
paesaggio urbano oramai disgregato e defunzionalizzato e la contestuale
costruzione di una "villa rustica" romana, attiva fino al I secolo
d.C. Nel Medioevo l'area
fu interessata dal fenomeno dei villaggi medievali i quali, a livello
archeologico, rimangono praticamente sconosciuti in questa parte del
territorio Salentino. |
Tempietto di Seppannibale Conosciuto
originariamente come chiesa di San Pietro lo Petraro si trova sulla
strada per Monopoli ed
è una costruzione a pianta quadrangolare a tre navate interne, con due cupolette disposte in asse.
All'interno vi sono resti di affreschi di scuola beneventana. In due donazioni (1086 e 1099) Goffredo,
conte di Conversano, donò la chiesetta di San Pietro
Beterano all'abate Lorenzo di Monopoli. I resti tuttora visibili degli affreschi, per quanto
frammentari, mostrano alcune figure (forse Profeti) e scene tratte dal libro
dell'Apocalisse. |
CONVERSANO-MONOPOLI Negli anni novanta,
Gioia Bertelli, docente di archeologia
paleocristiana e altomedievale presso il dipartimento di
studi classici e cristiani dell'Università
degli Studi di Bari, si è occupata delle indagini archeologiche
dell'edificio religioso e dell'insediamento correlato ad esso. Nella zona antistante alla chiesa sono emerse tracce di un
abitato tardo antico, la cui fase di vita è compresa tra il IV e l'VII
secolo. Le strutture tardoantiche si appoggiavano su muri di età precedenti
(molto probabilmente di età romana, per il ritrovamento di monete degli
imperatori Vespasiano, Antonino Pio e Commodo). Al di sotto dell'edificio sacro sono state rinvenute tracce di
muratura, forse un recinto sacro, con la presenza di animali (testa di un
cervide, capretta integra, capro intero con nella bocca un chiodo di bronzo,
una moneta e nei pressi una lucerna). La datazione è approssimabile
all'inizio dell'impero. |
Santuario di Monte Papalucio E’ un importante santuario messapico che sorge sull'omonimo
monte nel territorio di Oria in provincia di Brindisi,
ad est dell'attuale centro cittadino. Il complesso sacro, ove si veneravano
le divinità Demetra e Persefone, è sito in grotta. Il santuario si
trova lungo le pendici orientali della collina denominata ai nostri giorni
Monte Papalucio. Lungo tutto il fianco della collina sono ancora oggi
parzialmente visibili delle opere di terrazzamento, perché il luogo sacro
potesse essere meglio fruibile. In basso erano presenti alcune fattorie. La
grotta adibita al culto risulta di dimensioni modeste, specialmente oggi in
quanto risulta parzialmente colmata. In realtà le grotte all'epoca erano
differenti e comunicanti tra di loro. Il santuario risulta essere uno dei più importanti dell'intera
Messapia, insieme a quello di Grotta Porcinara di Leuca. La frequentazione del santuario è
attestabile dal VI sec. fino all'età romana. Il santuario dovette rivestire
una certa importanza anche in ambito magno-greco, come testimonia il
rinvenimento di monete e ceramica anche pregiata. |
ORIA Gli scavi archeologici effettuati nel corso degli anni ottanta dall'Università del
Salento, allora Università di
Lecce, hanno messo in evidenza il luogo di culto dedicato alle
divinità Demetra e Persefone. La ricerca ha interessato diversi ambiti tra
cui: la ceramica, la numismatica, l'archeozoologia e l'archeobotanica. I depositi votivi trovati
in prossimità della grotta e nella grotta stessa appartengono a classi
eterogenee. Sono stati rinvenuti centinaia di vasi miniaturistici di ottima
fattura, più vasi attici a figure nere del V secolo a.C., ceramica corinzia
del VI sec., ceramica proveniente dalla vicina Taranto e dall'intera Magna Grecia. Sempre in ceramica sono
state rinvenute delle figurine che raffigurano delle divinità o i due animali
che qui erano sacrificati: piccoli maialini e colombi. Oltre alla ceramica sono state rinvenute numerose monete da
differenti città della Magna Grecia, a testimonianza dell'intensa
frequentazione del sito e della città di Oria, in particolare le monete
provengono da Metaponto, Crotone, Sibari, Taranto. Riferibili direttamente al culto
delle due divinità sono invece i resti vegetali e animali; i primi si
riferiscono soprattutto a semi di melograno combusti, albero legato
alla fertilità e
alla primavera e dunque strettamente
connessi alle due divinità cui era dedicata la grotta. I resti animali sono
riferibili invece a maialini rinvenuti in forma di ossa combuste connessi
anch'essi con il culto della fertilità. |
Parco archeologico e naturalistico di Santa Maria d’Agnano Dal 1987 il sito è oggetto di scavi archeologici condotti da
Donato Coppola, con la collaborazione di numerosi studiosi provenienti da
università e centri di ricerca italiani e stranieri. Il parco archeologico fu
istituito nel 1991 ed è gestito dal museo di civiltà preclassiche della Murgia
meridionale. Proprio dal 1991 il professore Donato Coppola conduce nel sito
ricerche sistematiche che hanno evidenziato come il grande riparo sottoroccia
sia stato sede, per circa 30 000 anni, di riti e culti dedicati a
un'immagine femminile. Il sito archeologico è raggiungibile dalla strada
statale 16 Adriatica Ostuni-Fasano. Nella grande grotta-santuario
sono state rinvenute le due sepolture "Ostuni 1" e "Ostuni
2". I calchi dei seppellimenti sono attualmente esposti nel museo e
nella stessa grotta di Santa Maria di Agnano: nel museo sono inoltre esposti
i resti di Ostuni 1. |
OSTUNI La grotta in cui si trovava la donna di Ostuni al momento del
ritrovamento dista circa 2 km da Ostuni e costituisce un sito archeologico di
primaria importanza per la ricostruzione della storia del paese. In origine
la grotta si presentava come un grande ambiente unico. Qui, infatti, secondo gli studi condotti da Coppola, le
testimonianze rinvenute dimostrano che questa cavità e l'area circostante
sono state oggetto di riti e culti dedicati all'immagine
femminile. All'interno della grotta, oltre ai resti umani, sono stati
ritrovati elementi del corredo funebre, bracciali di conchiglie forate al
polsi della donna, un copricapo, strumenti in pietra e resti che ci
documentano su una ritualità di divinizzazione della defunta, a scopi propiziatori. All'interno della grotta sono emerse testimonianze che vanno
dal Paleolitico fino
al Medioevo: in particolare, un focolare e dei cereali sono riconducibili al neolitico. Una particolare attenzione va posta al ritrovamento della donna di Ostuni: "Ostuni 1" è
il nome scientifico attribuito allo scheletro di
una gestante di 27.000 anni fa, ritrovato nella grotta di Agnano insieme ai
resti di un feto di circa 33 settimane di
gestazione. Il corpo della madre è stato rinvenuto in posizione fetale, con
la mano sinistra posta sotto il capo e la destra delicatamente appoggiata sul
ventre, quasi a proteggere la creatura mai nata. La donna, al momento della
morte doveva avere all'incirca 20 anni. Dopo il rinvenimento lo scheletro è
stato denominato "Delia" successivamente catalogato con il codice
"Ostuni 1". Nella stessa grotta sono stati rinvenuti resti di uno
scheletro, denominato "Ostuni 2"; la sua pessima conservazione non
ha consentito di determinare il sesso. Non si esclude che in quella zona
verranno ritrovati nuovi reperti risalenti al Paleolitico. |
Castello d'Alceste E’ un'altura che occupa il punto più alto (119 m s.l.m.)
del territorio del comune di San Vito dei
Normanni in provincia di
Brindisiin Puglia e ricopre
una superficie di circa 23 ettari. Dalla sommità si può ammirare un vasto panorama dei principali
insediamenti antichi della parte istmica del Salento (Oria, Mesagne, Muro Tenente, Ostuni, Carovigno, Ceglie Messapica). Qui si trova un primo
recinto con pietre a secco ed
una recinzione più
larga alla base del colle ad andamento quasi circolare. Nel 1985 sul colle
viene scoperta un'importante area archeologica che era rimasta praticamente
sconosciuta per secoli. Tra il 1995 e 2000 si
è avviata un'operazione di recupero e di ricerca, attraverso lo scavo in
estensione e la prospezione sistematica dell'area attraverso foto aeree. Il
lavoro è stato frutto della collaborazione tra Soprintendenza per i beni archeologici di Taranto, l'Università del
Salento(Dipartimento di Beni Culturali) e il Comune di San Vito dei Normanni. |
SAN VITO Lo scavo ha permesso di identificare le tracce di un villaggio a capanne della seconda
metà dell'VIII secolo a.C. e
abitazioni a pianta ovale con
copertura di materiale deperibile. Ad esse si sovrappongono nel VI secolo a.C. costruzioni con un
impianto completamente diverso, che riflettono l'avvento di nuove tecniche
costruttive e di un nuovo modo di concepire lo spazio abitativo. Le case di
questo periodo sono articolate in più ambienti e presentano complessi sistemi
di copertura che fanno uso di tegole. Gli edifici si affacciavano su strade pavimentate con cocci
sminuzzati e convergevano in una grande piazza sulla parte più alta della
collinetta. L'area archeologica offre una possibilità rara: osservare lo
sviluppo di un abitato arcaico in un momento in cui cominciano a manifestarsi
nuove forme di organizzazione insediativa. Le due diverse tecniche di
costruzione riflettono, infatti, cambiamenti sociali di più vasta portata. L'insediamento viene abbandonato definitivamente agli inizi
del V secolo a.C.:
lo scavo archeologico permette di leggere le tracce di una distruzione
violenta. È probabile che tale evento vada ricollegato alle lotte che, in
quel periodo, opponevano i Greci di Taranto alle popolazioni messapiche. Alle guerre tra
Tarantini e Iapigi (o Messapi) fanno riferimento
numerosi scrittori antichi; un vivido resoconto ci è stato tramandato
da Erodoto (VII, 170,3). Il 29 luglio 2009, nell'ambito della
Giornata del Paesaggio, è stato inaugurato nella contrada Castello
d'Alceste, il museo diffuso.
Secondo del territorio pugliese, dopo quello di Cavallino,
è stato realizzato anche grazie al supporto della Fondazione Cariplo-Acri
Sviluppo Sud. |
Valesio E’ un sito archeologico a sud di Brindisi in provincia di
Brindisi, raggiungibile dalla Superstrada Brindisi-Lecce allo svincolo per il comune
di Torchiarolo.
Nella Tabula
Peutingeriana questo sito è indicato come Mutatio
Valentiaed è posto a metà del tragitto della cosiddetta Via Traiana
Calabra che andava da Brindisi a Lecce per proseguire sino ad Otranto. A Valesio sono state trovate, negli anni, tracce di
insediamenti che vanno dall'età del ferro sino all'Alto Medioevo. In base al numero e caratteristiche dei ritrovamenti effettuati
sino ad oggi, l'antica Valesium sembra raggiungere il massimo
splendore nei secoli VI-I secolo a.C. come città federata
con le poleis messapiche disseminate in tutta la penisola salentina. I messapi erano una popolazione
autoctona, forse di antiche origini illiriche, che, per la particolare
posizione del territorio che essi occupavano, aperto ai traffici commerciali
del Mediterraneo,
avevano assunto usi e linguaggio fortemente ellenizzati. Il sito di Valesio presenta ancora oggi chiare tracce
della cinta muraria che
si estende per un perimetro di ca. 3430 metri, di forma quadrangolare,
per un'estensione complessiva dell'area di 84 Ha. All'interno di esso scorre un torrente, chiamato Infocaciucci. Nel sito
sono state spesso scoperte tombe risalenti al
periodo messapico, contrassegnate dalla formula tabara
damatra oppure Tobaroas Damatrioas, che sembra significare, secondo
gli studi più diffusi sulla lingua messapica, devoto/a alla Dea Demetra oppure (tomba) della
sacerdotessa di Demetra. Valesio era tra le città messapiche che battevano una propria moneta, a testimoniare
dell'importanza commerciale che
questo insediamento aveva nell'economia della penisola salentina. |
TORCHIAROLO Periodo Romano Al centro del sito, in un luogo lievemente sopraelevato forse
corrispondente all'acropoli nel
periodo greco classico, fu scoperto negli anni '60 da Gabriele Marzano, direttore del Museo archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, un grande impianto termale romano risalente
al primo secolo dopo Cristo,
comprensivo di tre stanze in cui ristorare gli ospiti con acqua calda (calidarium), tiepida
(tepidarium), e fredda (frigidarium), come anche stalle per il cambio
dei cavalli. L'impianto termale fu oggetto, dal 1984 sino al 1991, di uno
scavo sistematico e totale da parte dell'équipe del prof. Boersma del
Dipartimento di archeologia classica della libera università di
Amsterdam, confermando in tal modo la funzione che Valesio ebbe
nel periodo romano di statio lungo il tragitto della via Traiana, nel suo ultimo tratto
fra Brundisium (Brindisi) e Lupiae (Lecce). L'analisi del materiale ceramico
utilizzato nel riempimento di alcuni degli ambienti dell'impianto, permise di
datare quest'ultimo all'inizio del IV secolo d.C., periodo in cui la Via
Traiana e Calabra fu oggetto di ristrutturazione da parte
dell'imperatore Costantino. Lo
scavo del complesso fu esteso a tutti gli spazi circostanti, scoprendo
nell'area probabilmente corrispondente all'atrio di ingresso, un ampio
mosaico. L’alto Medioevo Al centro del sito, in un luogo lievemente sopraelevato forse
corrispondente all'acropoli nel
periodo greco classico, fu scoperto negli anni '60 da Gabriele Marzano, direttore del Museo archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, un grande impianto termale romano risalente
al primo secolo dopo Cristo,
comprensivo di tre stanze in cui ristorare gli ospiti con acqua calda (calidarium), tiepida
(tepidarium), e fredda (frigidarium), come anche stalle per il cambio
dei cavalli. L'impianto termale fu oggetto, dal 1984 sino al 1991, di uno
scavo sistematico e totale da parte dell'équipe del prof. Boersma del
Dipartimento di archeologia classica della libera università di
Amsterdam, confermando in tal modo la funzione che Valesio ebbe
nel periodo romano di statio lungo il tragitto della via Traiana, nel suo ultimo tratto
fra Brundisium (Brindisi)
e Lupiae (Lecce). L'analisi del
materiale ceramico utilizzato nel riempimento di alcuni degli ambienti
dell'impianto, permise di datare quest'ultimo all'inizio del IV secolo d.C.,
periodo in cui la Via Traiana e Calabra fu oggetto di ristrutturazione da
parte dell'imperatore Costantino. Lo
scavo del complesso fu esteso a tutti gli spazi circostanti, scoprendo
nell'area probabilmente corrispondente all'atrio di ingresso, un ampio
mosaico Reperti presso il Museo Presso il Museo archeologico provinciale Francesco Ribezzo di Brindisi, è presente la Sala
Valesio dedicata a reperti provenienti dall'omononimo sito: corredi
tombali con vasi apuli e di Gnathia, iscrizioni funerarie, pesi da telaio,
epigrafi, lastre funerarie con iscrizioni messapiche, monete, vasi in bronzo,
in ceramica e a vernice nera, elementi architettonici in terracotta e in
pietra, sfere fittili probabilmente utilizzate come armi da catapulta e tanti
altri oggetti ritrovati durante gli scavi di Valesio (in dialetto i
torchiarolesi dicono 'Valisu'). |
Grotta di Facciasquata L'ingresso alla cavità naturale si trova nei pressi della masseria Abate Carlo, ad
un'altitudine di 300 m s.l.m. All'interno della grotta sono stati rinvenuti agli inizi
degli anni settanta dal gruppo
speleologico di Martina Franca,
reperti che testimoniano della sua frequentazione dal neolitico all'età del bronzo e
di una sua funzione di rifugio anche in epoca altomedioevale. |
VILLA CASTELLI |
Grotta di Montescotano Fu scoperta nel 1979 dal
"Gruppo speleologico martinese", che dopo aver liberato il primo
vano della grotta dalle pietre, scoprì un cunicolo lungo 6 metri terminante
in un altro vano, nel quale vennero ritrovate numerose lucerne, molte delle quali intatte. La
presenza di questi reperti ha permesso di ipotizzare che la grotta fosse
stata utilizzata come luogo di culto pagano prima messapico e poi romano, tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C. A circa 400 metri a sud ovest della grotta vi sono i resti di un
insediamento del IV secolo d.C.
(epoca tardoromana). |
VILLA CASTELLI |
Grotta Monte Fellone È ubicata nei pressi all'omonima masseria del XVII secolo. Possiede due ingressi, uno orizzontale e l'altro verticale posti
all'altezza di m. 325 s. l. m. Il primo rilievo archeologico è stato
effettuato nel 1965 la Sovraintendenza per le antichità della
Lombardia in collaborazione con la sovraintendenza per i beni
archeologici della Puglia effettuò una serie di studi sulla grotta nel
mese di agosto. Rinvenendo reperti di tipo fittile, litico e faunistico
e un osso umano lavorato, forse utilizzato come strumento musicale. Una
seconda campagna di scavi è stata condotta nel 1966 con i seguenti
risultati La Grotta di Monte Fellone fu abitata durante il Neolitico Medio e saltuariamente
nell'Età del bronzo La maggior parte dei frammenti fittili si ricollegano a quelli del tipo Ostuni antichi graffiti a
volte di esecuzione accurata. |
VILLA CASTELLI |
Siti Archeologici della Provincia di Foggia |
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Pirro Nord Gli scavi sistematici, diretti dall'Università di
Ferrara, hanno permesso di portare alla luce più di 300 strumenti
in selce e migliaia di ossa
appartenenti a quasi cento specie diverse. Il sito di Pirro Nord è situato sul margine nordorientale del
promontorio del Gargano, vicino alla città
di Apricena. Si trova, all'interno di una
cava di calcare. La "fessura Pirro 13",
che ha restituito i resti dell'attività antropica, è collocata al tetto della
formazione calcarea mesozoica e
durante il Pleistocene faceva
parte di un intricato complesso carsico. La fessura contiene resti paleontologici villafranchiani, con ossa di bisonti (Bison
degiuli), caprioli (Capreolus sp.),
cavalli (Equus
altidents), mammut (Mammuthus
meridionalis), rinoceronti (Stephanorhinus sp.),
tigri dai denti a sciabola (Homotherium
latidens) e di più di 20 specie di anfibi e rettili e di 47 specie di uccelli. L'ambiente, al momento dell'occupazione umana, era
caratterizzato da spazi aperti, tendenzialmente secchi ma con presenza di
specchi d'acqua stagionali. Cronologia L'attribuzione cronologica del sito è stata fatta su base biocronologica. I fossili sono attribuiti
al Villafranchiano finale
(Pleistocene
inferiore). Le analisi paleo-magnetiche, ancora in fase di
affinamento, suggeriscono che la fessura Pirro 13 possa essere riferita
al Matuyama,
in un'età successiva al crono
Olduvai. |
Apricena Materiali Litici Dal 2006 ad
oggi sono stati rinvenuti più di 300 manufatti scheggiati a partire da
piccoli ciottoli in selce raccolti in
posizione secondaria nelle aree limitrofe al sito. Le catene operative,
seppur non complete, attestano tutte le fasi della produzione, dalla decorticazione
fino all'abbandono del nucleo. I metodi di scheggiatura adottati sono
finalizzati all'ottenimento di schegge con almeno un margine funzionale. I
ciottoli di medio-grandi dimensioni sono stati sfruttati con un metodo di
scheggiatura opportunista che prevede lo sfruttamento di più piani di
percussione ortogonali tra loro tramite una scheggiatura unipolare. I nuclei
sono stati sfruttati fino ad esaurimento totale della materia prima, nella
maggior parte dei casi. I ciottoli di piccole dimensioni sono stati sfruttati
con una modalità centripeta e i prodotti ottenuti (schegge) presentano delle
morfologie "standardizzate": schegge di forma triangolare con una
punta non in asse e un debordamento opposto alla punta. |
Marmi di Ascoli Satriano Sono un complesso di reperti in marmo del IV secolo a.C. appartenuti ad una
tomba dell'élite principesca dauna e rinvenuti nel territorio
di Ascoli Satriano.
Sono conservati nel museo civico di Ascoli Satriano. Il complesso è costituito da un cratere decorato con corona d'oro,
un bacino rituale dipinto (podanipter), un sostegno di mensa (trapezophoros)
con coppia di grifi,
una coppia di mensole e alcuni
pezzi minori. Nel gruppo viene inclusa anche una statua di Apollo con grifone, risalente
al II secolo a.C.,
ma assimilata agli altri pezzi per il luogo di ritrovamento. Gli oggetti del complesso furono probabilmente rinvenuti tra
il 1976 e il 1977 attraverso
scavi clandestini per mano di tombaroli locali, che misero in luce ventuno oggetti
di varia natura, smembrati a scopo commerciale. Alcuni pezzi furono
sequestrati dalla Guardia di Finanza,
mentre il supporto per mensa con i grifoni e il bacino rituale dipinto, più
pregiati, furono venduti al mercante d'arte Giacomo Medici, entrarono
illegalmente a far parte della collezione di Maurice Tempelsman e poi
al Paul Getty Museum,
entrato in possesso anche della statua di Apollo con grifo. I reperti furono
poi restituiti all'Italia nel 2007. Gli oggetti dovevano appartenere al corredo di una tomba a camera. La delicata pittura
ancora conservata sul bacino rituale indica infatti probabilmente una
funzione solo funeraria, limitata al solo contenimento dell'acqua rituale
durante la cerimonia funebre. Analogamente la corona d'oro in origine posta
sul cratere è legata all'esaltazione del defunto e non ha solo scopi
decorativi. Il sostegno con i grifoni doveva sostenere una mensa marmorea,
oggi perduta utilizzata, come tavola per le offerte (dove erano disposti gli
altri oggetti, forse con al centro il cratere, mentre le mensole dovevano
sorreggere il letto funebre. |
ASCOLI SATRIANO Gli Oggetti: Il Cratere e la Corona d’Oro Il Sostegno di Mensa La Statua di Apollo con Grifone Mensole Oinochoe a bocca rotonda: si tratta
di una brocca per il vino, probabilmente incompleta, con tracce di dipintura
sull'orlo e sulla spalla. Epichysis:
si tratta di una brocca dal corpo cilindrico decorato a baccellature piene,
con ampio piede, più alto e sottile che nell'oinochoe, e con collo stretto e
allungato; dell'ansa rimangono soltanto gli attacchi. Loutrophoros:
ugualmente composto da tre parti distinte, collegate tramite concavità e
convessità, presenta corpo troncoconico, anch'esso in parte decorato da
baccellature piene, con lungo collo cilindrico terminante in un ampio labbro
piatto dal bordo sagomato. Podanipter: vasca del bacino rituale, essa presenta all'interno la scena del trasporto delle armi forgiate da Efesto per Achille su richiesta della madre Teti, aiutata dalle sorelle. Sulla vasca ora è visibile solo Nereide che reca lo scudo. Sui vari oggetti dell'insieme sono stati identificati nove
colori diversi: rosso, rosso-violaceo, azzurro, rosa, bianco, beige, giallo,
verde e marrone: ricorrono con più frequenza il rosso e l'azzurro
scuro.L'accostamento fra i diversi toni di rosso e l'azzurro accompagnato al
bianco e al giallo oro sono procedure tipiche della decorazione a tecnica
sovraddipinta. La rappresentazione delle figure si basa su un disegno
preparatorio, con l'uso di una tecnica particolare che gioca sulla variazione
dello spessore e del tono di colore: nelle parti in cui domina l'azzurro
scuro si è prima tracciato un bordo spesso e marcato per delineare il corpo
degli animali, mentre nei tratti di colore rosso i profili sono più delicati,
accennati con una linea leggera e meno marcata. Gli accostamenti cromatici riflettono il gusto per la policromia
delle aristocrazie daune, visibile anche
nelle contemporanee pitture parietali e nelle ceramiche (di Arpi e di Canosa). |
VILLA DI FARAGOLA La villa, che conobbe la fase di massima espansione tra il IV e il VI secolo, occupa un'area molto estesa
presso il fiume Carapelle,
distante 9 km da Herdonia (oggi Ordona) e 5 km
da Ausculum (Ascoli Satriano), lungo il percorso della via Aurelia Aeclanensis (che
collegava Herdonia ed Aeclanum, mettendo in comunicazione
la via Appia e
la via Traiana). La villa, forse appartenente alla famiglia senatoria degli
Scipioni Orfiti, era sorta sui resti di un insediamento daunio del IV-III secolo a.C. (con tracce
risalenti ai secoli precedenti), di una villa di epoca romana (I-III secolo d.C.). La villa
tardoantica ebbe due fasi principali: una relativa al III-IV secolo,
caratterizzata da una pianta legata alla tradizione delle ville romane
classiche, con un grande peristilio e un atrio, con numerosi vani disposti
intorno; l'altra, databile al V-VI secolo, profondamente modificata, pur
riutilizzando in parte vani e spazi della villa precedente, con grandi terme,
una spettacolare sala da pranzo estiva (cenatio), numerosi ambienti di
servizio e uno sviluppo in altezza, con ambienti residenziali posti al piano
superiore, secondo un modello tipico della Tarda Antichità. Il sito venne quindi occupato da un villaggio altomedievale (VII-VIII secolo), probabilmente
identificabile con una curtis longobarda. L'area, acquisita nel 1997 dal
comune di Ascoli Satriano, è stata oggetto di scavi archeologici sistematici
da parte dell'Università di
Foggia a partire dal 2003.
sotto la direzione di Giuliano Volpe e Maria Turchiano.
Nel 2009 il sito è stato parzialmente
aperto al pubblico (parco archeologico di Faragola), con la musealizzazione
della sala dal pranzo estiva (cenatio). Negli anni successiva la sistemazione
museale ha riguardato anche le terme e alcuni ambienti di servizio. Nella
notte tra il 6 e il 7 settembre 2017 un
incendio doloso ha distrutto l'intera copertura danneggiando buona parte
delle strutture della villa e delle sue decorazioni. |
ASCOLI SATRIANO Della villa tardoantica sono stati rimessi in luce in
particolare il grande settore termale e una lussuosa sala da
pranzo (cenatio),
oltre a vari ambienti di servizio, magazzini, cucine e anche una fornace per
la produzione di laterizi. A sud della cenatio erano posti alcuni vani utilizzati
come magazzini e dispense, oltre ad una latrina. Altri vani al piano
superiore erano raggiungibili mediante una scala di cui restano cospicui
resti. A nord della cenatio è stato rinvenuto un altro blocco
di ambienti, con vari spazi di servizio al piano terra (cucine, magazzini) e
verosimilmente residenze al primo piano, secondo un modello edilizio tipico
dell'epoca tardoantica. Ad alcune decine di metri dalla cenatio si collocava
un edificio di grandi dimensioni, interpretabile forse come un horreum, un grande magazzino granario. Molto importante anche la fase altomedievale, dopo la fine della
villa, quando furono realizzati sia nuovi ambienti residenziali e strutture
produttive (fornaci, vasche di decantazione dell'argilla, fosse per la
fusione di metalli, ecc.), sia furono riutilizzati gli ambienti della
precedente villa, e capanne lignee disposte nell'area della antica villa. La
fase altomedievale si articolò di un due momenti con caratteri distinti,
rispettivamente nel VII e nell'VIII secolo d.C. Sulla base di vari indizi, si
ritiene che possa trattarsi di una azienda agricola (curtis) appartenente
alle proprietà fiscali beneventane. |
Piano
delle Fosse del grano Con le sue oltre 600 fosse,
rappresenta l'ultimo esempio di una modalità di conservazione del grano tipica della Capitanata. Il primo documento che parla
dell'esistenza delle fosse risale al 1225
ma solo nel 1581 si fa esplicito riferimento al
piano antistante la chiesa di San Domenico. La fossa (dal latino fovea) presenta una cavità a
forma di campana ricavata nel terreno (chiamato carso, da carsico) sotto il
livello stradale, al fine di conservare cereali, mandorle, fave e semi di
lino. La capacità media si aggira intorno ai 500 quintali (anche se alcune
arrivano addirittura a 1.100 quintali). Le pareti interne venivano tinteggiate
a latte di calce, a cui oggi si preferisce
il cemento come
rivestimento, questo al fine di evitare il contatto diretto del prodotto con
il terreno. Internamente sono rivestite in pietra come
il pavimento o in mattoni. L'imbocco
sfiora la superficie, ed è di forma circolare. Le dimensioni delle fosse
seguivano misure standard, di solito avevano un profondità di 5 metri ed un
diametro di 4,5 metri, l'imboccatura invece misurava 1,25 metri. Esternamente
le Fosse presentano un cordolo in pietra locale (in dialetto andeïnë) rozzamente
lavorata che ne delimita l'apertura e che la protegge dalle infiltrazioni
di acqua piovana. Il colletto superiore
della Fossa è costituito da quattro mattoni angolari (in terracotta o pietra) che delimitano
l'imboccatura circolare della stessa (in dialetto appëdaturë).
La Fossa è chiusa da assi di legno (in dialetto tavëlünë), a
loro volta ricoperti da un cumulo di terra per far defluire l'acqua piovana.
L'ultimo elemento tipico della Fossa è costituito da un cippo di pietra (in
dialetto u tïtëlë) alto in
media 90 cm, su cui venivano scolpite le iniziali del proprietario, e un
progressivo numerico della Fossa. La funzione di quest'ultimo elemento, era
favorire l'identificazione e la localizzazione della Fossa. |
CERIGNOLA In passato, il contenuto veniva riversato all'interno del silos attraverso una piccola apertura ad imbuto
(detta angelo). Una volta praticato un foro nel cumulo di terra che
ricopriva la fossa, questo veniva modellato con malta di
terra ed acqua e rinforzato con alcune pietre. Avendo così irrobustito
l'apertura, era possibile scaricare il grano preservando l'isolamento con il
terreno. Successivamente, questo metodo fu sostituito da un cilindro
cementizio industriale, corto e provvisto di coperchio. Attualmente si
utilizza un ampio telone che ricopre interamente la fossa e che presenta un
foro centrale attraverso cui far scivolare il prodotto. L'estrazione del
frumento dalle fosse granarie necessitava di una vera e propria organizzazione
di esperti operai, i cosiddetti sfossatori.
Alla base dell'ingresso della fossa, venivano disposti tre o quattro pali
fissati al terreno. Questi fungevano da sostegno alla cui estremità veniva
montata un carrucola per
le operazioni di carico del grano. Prima di poter scendere nella fossa,
l'operaio provvedeva a sbattere un sacco contro le pareti della fossa, in
modo da consentire l'ingresso dell'aria nella fossa stessa. Per essere sicuri
che l'aria all'interno della fossa fosse sufficiente, veniva accesa una
candela, ed in base alla persistenza della fiamma, si determinava la presenza
di ossigeno. Il grano prelevato veniva
misurato riempiendo un recipiente in legno detto tomolo, che deve il nome all'omonima
misura agraria di capacità in uso nel sistema metrico borbonico,
corrispondente a circa 45 litri. Infine veniva stoccato in sacchi. |
Terra Vecchia Si presenta come un tipico aggregato urbano medievale ad accerchiamento dalla forma circolare. È situato nella parte nord della città su una collina. Cerignola si trova al crocevia di due importanti sistemi infrastrutturali: i tracciati dauni e romani ed i tratturi per la transumanza, tant'è che in epoca romana la città rappresentava già un insediamento di scambio. Ad avvalorare la tesi dell'origine romana del borgo vi è il suo impianto urbanistico, ricco di elementi di ortogonalità tipici dei centri del Medioevo sviluppatosi su agglomerati preesistenti. In epoca medievale il borgo, ridotto a sede di feudo, fu dotato di castello, torri e cinta muraria. Resti delle mura sono osservabili lungo via 13 Italiani e via Torrione. Attualmente invece risulta essere perimetrato da una serie di costruzioni che ne delimitano i confini. Il tessuto viario è disordinato e si sviluppa intorno ad un asse principale, via Piazza Vecchia, che collega le due principali porte d'ingresso alla città (l'Arco della Piazza o Pignatelli e l'Arco di Carbutto e in cui confluiscono numerose stradine strette e tortuose caratterizzate dall'assenza del marciapiede. La pavimentazione è ad acciottolato strutturato in forme geometriche riquadrate da lastre di pietra. Il borgo presenta una tipologia assortita di abitazioni: case ad un solo piano, i cosiddetti bassi composti da un solo vano e generalmente privi di finestre; gli iusi, ovvero abitazioni poste al disotto del piano stradale per circa 4 metri; i vignali o soprano elevati rispetto al piano stradale e a cui si accede attraverso una scalinata esterna, queste case erano destinate alle classi più abbienti e spesso erano arricchite da elementi architettonici quali: verande, lesene ed incorniciature architettoniche ed infine troviamo le case a più piani (Palazzo Matera, Palazzo Bruni, Palazzo Gala e il Palazzo della Chiesa) che ospitavano invece le famiglie nobili più influenti e risalenti circa al XV-XVI secolo. L'antico borgo ospita anche la vecchia cattedrale, la chiesa madre, che è anche il tempio più antico della città (XI-XIII secolo), che divenne sede vescovile nel XIX secolo. |
CERIGNOLA Attualmente è sede della parrocchia di San Francesco d'Assisi. Sempre nel borgo troviamo, inoltre, la Chiesa di Sant'Agostino con annesso il convento (XV secolo), la Chiesa di San Leonardo (XV secolo) e la Chiesa di San Giuseppe o della Santissima Trinità o di Sant'Elena. Oltre alle numerose chiese ed alle diverse tipologie di palazzi, il borgo è caratterizzato da molte testimonianze epigrafiche: semplici date, attestazioni di proprietà e motti. Interessante è un'iscrizione su tufi che fa riferimento al terremoto del 1731. Proprio quest'ultimo causò notevoli danni all'intero centro storico, distruggendo buona parte degli edifici, tra cui il castello che fu semidistrutto. Nella seconda metà del '700 iniziò la fase di ricostruzione del borgo e si assistette ad un'ulteriore espansione della città al di fuori delle mura. La ricostruzione avvenne però in maniera del tutto caotica, con edifici privati dei piani superiori, distrutti dal terremoto, e con altri costruiti riciclando le macerie di altre abitazioni. Nell'Ottocento il borgo raggiunse la sua fisionomia definitiva, anche perché le espansioni della città non interessarono più il borgo, che anzi cominciò a trovarsi in posizione abbastanza decentrata rispetto all'abitato. Fortunatamente è possibile affermare che la parte più antica della città conserva quasi inalterata la sua fisionomia originaria, rappresentando di fatto un'importante testimonianza storico-culturale. Attualmente sono in atto lavori di ristrutturazione atti alla sua riqualificazione. |
Torre Alemanna E’ ubicato a 18 km da Cerignola, lungo la strada provinciale
per Candela,
al crocevia di due importanti vie di comunicazione ricadenti sul tracciato
dei tratturi a servizio della transumanza. Attualmente è inglobato
dalla frazione rurale denominata Torre Alemanna-Borgo Libertà, fondata nel 1951 da
l’Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria
di Puglia e Lucania. Il nome di Torre Alemanna compare,
come riferimento topografico, in un documento del "Codice diplomatico barlettano" del 1334. Nella
delimitazione dei confini di una proprietà si fa riferimento ad
una "viam qua itur a Turri de Alamagnis". In documenti più
tardi, ma anche nella cartografia di epoca moderna, il luogo è spesso citato
con il toponimo Torre de la Manna. Per essere già nota in quell'epoca
significa che essa esisteva da tempo. Va ricordato che, a breve distanza dalla Torre Alemanna,
c'è il Monte Maggiore,
luogo in cui si svolse nel 1041 la battaglia
di Montemaggiore, con i Normanni ed i Longobardi che sconfissero i Bizantini. L'appellativo
di Alemanna rinvia inoltre ai suoi fondatori, i Cavalieri
Teutonici, ai quali Federico II donò
(come attestano documenti del XIII secolo) delle terre presso Corneto,
antico borgo medievale (distrutto nel 1349,
nel corso delle guerre dinastiche che videro opposti Giovanna I di
Napoli e Carlo III di
Napoli), i cui resti distano difatti poco più di un chilometro dal
complesso. Il complesso di Torre Alemanna, è ritenuto dagli storici il più
fiorente delle balie teutoniche in Puglia. Un centro talmente ricco (fra
il XIV ed il XV secolo, possedeva oltre 2.800 ettari di terre) da consentire con
la sua produzione zootecnica e cerealicola il sostentamento anche
di San Leonardo di Siponto, da cui
dipendeva, e degli altri insediamenti pugliesi aventi perlopiù valenza
strategica e politica. L'intero possedimento fu nel 1483 ceduto
dai Cavalieri alla Chiesa che, trasformandolo in Commendaconcistoriale, lo gestì per mezzo di
procuratori. Qualche decennio dopo, nel 1525, Leandro Alberti descrive il
monumento come meta di pellegrinaggi da parte di ex prigionieri che vi
portavano ex voto in onore di San Leonardo, ma al momento della visita
il complesso appare in stato di abbandono ed a rischio di rovina. Appare
molto probabile che in questo arco di tempo la comunità di Torre Alemanna
visse una fase di transizione tale da determinarne un processo di degrado e
trasformazione dell'originario assetto, così come si era stratificato nel
corso del XIII e XIV secolo. Intorno al terzo quarto del XVI secolo si segnala l'attivismo
del cardinale Niccolò
Caetani di Sermoneta, che nel 1570 avvia
i lavori di costruzione del "Palazzo dell'Abate”, nell'ala sud del
complesso. Una visita pastorale del 1693 ci
consegna l'immagine del complesso alla fine del XVII secolo insieme al manoscritto che descrive le destinazioni d'uso dei
vari ambienti del complesso è conservata una stampa con la rappresentazione
delle diverse strutture e relativa legenda descrittiva . Nuovi interventi si
hanno all'epoca del cardinale Pasquale
Acquaviva d'Aragona quando, in seguito all'evento sismico
del 1731, il suo procuratore Diego Ingellis
realizza nel 1750 la suggestiva loggia che collega il “Palazzo dell'Abate” alla torre e l'ingresso principale a
sudest. Nel 1865 fu venduto come bene demaniale ed i successivi interventi
di ristrutturazione sostanzialmente non muteranno l'immagine del corpo
principale del complesso edilizio. Nell'ultimo dopoguerra il
complesso masseriale ha
subìto i maggiori danni, dovuti all'incuria, allo sconsiderato uso e,
soprattutto, alla radicale trasformazione del sito. Negli anni cinquanta del secolo scorso,
infatti, l’Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione e la Trasformazione
Fondiaria di Puglia e Lucania (poi denominato prima ERSAP ed
infine Settore riforma fondiaria - Ufficio ex ERSAP) fondò una nuova
borgata denominata Borgo Libertà demolendo alcune parti del complesso
masseriale. Del vecchio quadrilatero, che costituiva l'intera masseria sorta
intorno alla Torre, oggi resta tuttavia visibile e ben conservata una parte
degli edifici, essendo scomparsi totalmente solo alcuni corpi di fabbrica sul
lato ovest e sul lato nord, rispettivamente corrispondenti alle antiche rimesse
per le carrozze e al giardinetto, così come illustrato nella citata stampa di
fine Seicento. Nel 1983 il complesso
masseriale è stato sottoposto a regime di tutela con declaratoria di vincolo,
quale bene monumentale. Nel 1988 partono i
primi interventi di restauro e di consolidamento del solo nucleo centrale. Un
secondo lotto di lavori dal 1997 al 2000,
nonché le attività di ricerca condotte con importanti sinergie tra Enti ed
Università (italiane, francesi e tedesche) nell'ambito del programma
finanziato dalla Comunità Europea denominato
"Cultura 2000", hanno iniziato a restituire al monumento gli
antichi splendori. Torre Alemanna, con gli attuali lavori di restauro, si
approssima a diventare Museo della ceramica e Centro internazionale di
studi. Nel 2013 è stato uno dei 700 tesori
artistici aperti al pubblico durante la XXVI Giornata FAI di Primavera (23 e
24 marzo). |
CERIGNOLA Torre Alemanna appare oggi come un complesso masseriale dotato,
per l'appunto, di una torre d'avvistamento a pianta quadrangolare di circa 10
metri di lato e 24 di altezza e di una serie di corpi di fabbrica edificati
nel corso dei secoli per ospitare numerose destinazioni d'uso (residenziale,
produttiva e di culto) (Fig. 3). Il vano di piano terra della torre, la cui
altezza si estende fino al livello del 1º piano del complesso, è coperto
con volta a crociera (Fig.
4) costolonata poggiante su quattro colonnine con capitelli gotici "a crochet”. Esso,
pregevolmente affrescato su tre lati e caratterizzato da un arco trionfale sulla parete ovest, è
stato da sempre ritenuto una preesistente cappella, sulle cui mura, opportunamente
raddoppiate, fu eretta la torre. La scoperta degli affreschi (Fig. 5-7), datati alla
seconda metà del XIII secolo,
avvenne nel corso dei primi lavori di restauro nel 1989.
Con il prosieguo dei lavori (1997-2000),
operando alcuni saggi conoscitivi all'interno dei muri, si è in realtà
constatato che le modanature dell'arco
trionfale (Fig. 8) svoltano nella muratura verso ovest rivelando che si
tratta addirittura del presbiterio a pianta quadrata
di una chiesa, probabilmente cistercense, la cui navata è oggi riconoscibile nella parte
adiacente sul lato ovest. Inoltre, gli scavi archeologici operati nel 2003 (Fig.
9) nel presbiterio stesso hanno rivelato la preesistenza di
un'ulteriore abside da
relazionare ad una chiesa ancor più antica. Dunque è plausibile l'ipotesi che
i Cavalieri, venuti in possesso dei terreni, abbiano eretto una torre sui
resti di una chiesa edificandone, qualche decennio più tardi (XVI secolo), una nuova (oggi ancora
esistente) dedicata prima a Santa Maria dei Teutonici, poi a San Leonardo. |
Cerina (o Kerina, Kerine, Κερίνη in greco antico) era un'antica città preromana intitolata alla dea Cerere e ubicata nei pressi del fiume Ofanto, dove un tempo, lungo la via Traiana, si sviluppò la mansio Furfane. |
CERINA Nel 324 a.C., durante
la guerra
greco romana, fu distrutta dal re dell'Epiro, Alessandro il
Molosso; Gli abitanti, scampati alla distruzione, in un primo
momento si spostarono nelle campagne circostanti (dando vita a numerosi
borghi: Tressanti, Fontana-Fura, San Giovanni in Fonte) e successivamente si
rifugiarono nei pressi della torre di guardia romana, dove costruirono
(all'incirca nel 500 a.C.) il villaggio di Ceriniola (o Keriniola),
corrispondente all'attuale Cerignola, ed il cui toponimo significavo
proprio "piccola Cerina". |
Argos Hippium Arpi (anche chiamata Argyrippa o Argos
Hippium, derivante dal greco Aργύριπποι, Άργος Ίπποι)
era una città della antica Apulia, di cui restano
scarse vestigia, anche se "nel sottosuolo sono presenti innumerevoli
resti archeologici che se riportati alla luce potrebbero suscitare un nuovo
impulso turistico per il territorio" (Marina Mazzei). Situata a 8 km a nord-est
di Foggia la sua importanza e grandezza
era dimostrata ancora al tempo di Strabone dall'ampiezza delle sue
mura (ben 18 chilometri), per cui la città appariva, come a Canosa, una delle maggiori degli Italioti. « Come il chicco del frumento occorre che cada e marcisca
tra i solchi dei campi per dare a suo tempo una pingue spiga, e come la
pianticella ha bisogno di trapianto per svilupparsi e stendere i suoi rami,
così fu di Arpi, ché dalle sue rovine nacque Foggia, per cui questa
"Nuova Arpi" ha ben ereditata la gloria della antica città
madre. » (Sac. Michele di Gioia, da: "Maria S.S. dei Sette
Veli" - 1964) Il nome di Arpi risulta composto da Argos in memoria della
patria lontana e con l'aggiunta di Hippium per qualificare l'eccellenza del
luogo adatto per l'allevamento dei cavalli, tale nome divenne poi Argirippa
ed infine Arpi dal greco "arpe" che vuol dire falce. Il nome Arpi,
inoltre, potrebbe anche derivare da "arpane", come venivano
chiamati gli armenti dei buoi allevati nella zona. Tale versione potrebbe
essere la più probabile in quanto Arpi, presumibilmente ha avuto per stemmi
il delfino, il cavallo, il cinghiale e il bue. |
FOGGIA Dopo la schiacciante
vittoria a Canne (216 a.C.), Annibale raggiunse i primi
importanti risultati politico-strategici. Alcuni centri cominciarono a
abbandonare i Romani, come Campani, Atellani, Calatini, parte dell'Apulia, i Sanniti (ad esclusione dei Pentri), tutti i Bruzi, i Lucani, gli Uzentini e quasi tutto il litorale
greco, i Tarentini,
quelli di Metaponto, di Crotone, di Locri e tutti i Galli cisalpini, e poi Compsa, insieme agli Irpini. Non si arrese invece Neapolis, rimasta fedele a Roma. Negli anni successivi Annibale si recò più volte in Apulia. Nel 215 a.C., dopo essere stato sconfitto
a Nola, pose gli accampamenti invernali proprio nei pressi
di Argos Hippium. Il console Quinto Fabio Massimo Verrucoso ordinò
allora al console più giovane, Tiberio
Sempronio Gracco, di condurre le sue legioni da Cuma a Lucera in Apulia, ed inviò il
pretore Marco Valerio
Levinoa Brundisium con
l'esercito che aveva con sé in precedenza a Lucera, incaricandolo di
difendere le coste dell'agro salentino e sorvegliare i movimenti
di Filippo V di
Macedonia in vista di una possibile guerra con la
Macedonia. L'anno seguente (214 a.C.), Annibale partì da Argos
Hippium per tornare in Campania, seguito da Tiberio Gracco, che mosse la
sua armata da Luceria a Beneventum; intanto al il figlio di Fabio
Massimo, il pretore Quinto
Fabio, venne ordinato di partire per l'Apulia e sostituirvi
Gracco. Annibale dopo aver passato l'inverno ad Arpi ritornò sul monte
Tifata nel territorio di Capua. Nel 194 a.C. Roma fece aspra vendetta sulle antiche città che le
furono infedeli. Tra queste, vi fu Arpi alla quale fu tolta la libertà,
furono abbattute le mura, furono negati l'approdo marittimo a Siponto, le monete proprie e ogni altro
diritto: divenne quindi un'umile colonia romana. Posta, come poi Foggia, nel cuore del Tavoliere delle
Puglie, vi ebbe preponderante importanza La sua alleanza con Roma contro
i Sanniti determinò l'esito della
lotta tra Oschi e Latini nel primato d'Italia. |
Anfiteatro Romano di Lucera L'Anfiteatro romano di Lucera è un anfiteatro di epoca romana situato nella periferia
est di Lucera. Risale all'età augustea ed è fra i più antichi
dell'Italia meridionale. Per le sue notevoli dimensioni, risulta essere
la più importante testimonianza romana di tutta la Puglia. E’ straordinariamente conservato, realizzato per un pubblico
numeroso, con una capienza tra i 16.000 e i 18.000 spettatori. Dopo la conquista romana nel 314 a.C. Luceria divenne
prima colonia di
diritto latino e in seguito municipium.
Sotto Augusto ebbe il suo periodo di
maggior splendore che si manifesta anche nell'erezione di numerosi edifici
pubblici e nella trasformazione dell'assetto urbano. Nella parte orientale
della città il magistrato lucerino Marco Vecilio Campo, duoviro iure dicundo, prefetto
del fabri e tribuno dei militi, fece costruire in corrispondenza di
una depressione naturale del terreno, a sue spese e in un'area di sua
proprietà, un grande anfiteatro in
onore di Augusto e della colonia di Lucera,
come attesta l'iscrizione posta sugli architravi dei portali di ingresso. L'anfiteatro fu probabilmente danneggiato a seguito della
conquista della città da parte dell'imperatore Costante II nel 663.
In seguito al suo abbandono venne utilizzato come cava di pietre e si interrò
progressivamente. Nel 1932 alcuni
scavi portarono alla luce i primi significativi resti dell'anfiteatro romano.
I lavori di scavo e di restauro delle strutture furono diretti prima da Quintino Quagliati e
quindi da Renato Bartoccini e
terminarono nel 1945. Dal 2006 al 2009 l'Area
Archeologica è stata oggetto di un ulteriore intervento di recupero e
restauro, realizzato con finanziamenti dell'A.P.Q. Regione Puglia “Beni
culturali Sistema delle aree Archeologiche”. Sono stati realizzati nel
settore curvo occidentale degli spalti gradonati, per una capienza di circa
mille posti a sedere, per poter permettere all'Anfiteatro di ospitare eventi
musicali, teatrali e culturali. Considerando la grandezza
dell'Anfiteatro, le gradinate meriterebbero di essere ampliate su tutta la
struttura in modo da ridarle un assetto uniforme, tornando ad accogliere i
16.000-18.000 spettatori che al tempo dei Romani riuscivano ad assistere agli
spettacoli |
LUCERA L'anfiteatro poteva ospitare tra i 16.000 e i 18.000 spettatori;
ha pianta ellittica e dimensioni di 126,80m. X 94,5m. circa. L'accesso era costituito da due
portali inquadrati da colonne di ordine ionico, collocati sull'asse
maggiore in direzione della città e in direzione di Foggia. Sull'architrave
dei portali l'iscrizione ricorda la costruzione dell'anfiteatro da parte del
magistrato locale Marco Vicilio Campo. Sull'asse minore si aprivano altri due
accessi. L'arena misura 75,20m. X 43,20m. ed è delimitata da un
canale di raccolta delle acque e da un podio nel quale si aprono quattro
accessi all'arena. Al di sotto dell'arena è scavata una lunga galleria di
servizio aperta per tre fosse, dove confluivano inoltre le acque piovane dai
canali di raccolta. Nei pressi dell'anfiteatro sorgevano la palestra degli
atleti, alcuni edifici pubblici e un'infermeria. |
Coppa Nevigata La frequentazione umana sul sito, situato ai margini della
costa, con facile accesso al mare e numerose
risorse naturali, risale al Neolitico, ossia intorno al 6000 a.C. Nell'età del Bronzo -
intorno al 1750
a.C. - si sviluppa un insediamento notevole, che vanta anche
contatti con la civiltà minoica:
si praticava ampiamente l'estrazione della porpora dai murici e la spremitura delle olive, dimostrando così l'antichissima
tradizione culturale legata all'olio d'oliva in Puglia. Alcune aree prossime alle
fortificazioni e alla riva della laguna furono adibite ad attività
collettive, connesse sia alla conservazione e al trattamento dei cereali, che all'estrazione della
porpora; in seguito queste attività si spostarono all'interno dell'abitato.
L'insediamento era provvisto di mura difensive in pietrame a secco. Attualmente il sito è scavato periodicamente da una missione
della Sapienza di Roma,
sotto la direzione di Alberto Cazzella. |
MANFREDONIA |
Parco archeologico delle Basiliche di Siponto Comunemente conosciuta come basilica di Siponto era
l'antica cattedrale di Siponto, eretta
nel 1977 a basilica minore dal cardinale Corrado Ursi quale rappresentante
di papa Paolo VI. La
basilica è dedicata a Maria
Santissima di Siponto. La prima data documentata è quella del 1117,
quando la chiesa venne solennemente consacrata e ci fu la reposizione delle
reliquie di san Lorenzo
Maiorano sotto l'altare maggiore; si pensa che in quell'anno
sia avvenuto il passaggio di consegne tra la nuova chiesa (questa) e la
vecchia basilica paleocristiana (già basilica pagana), ridotta oggi a soli
ruderi di interesse archeologico. La chiesa superiore sorgeva su quella
inferiore, databile all'alto medioevo,
costruita con i ruderi della vecchia caduta dopo un terremoto. Per secoli è stata custodita l'icona di Maria
Santissima di Siponto, databile all'VIII secolo e custodita attualmente
nella cattedrale
di Manfredonia per questioni di sicurezza; come anche la
statua lignea detta la Sipontina o Madonna dagli occhi
sbarrati del VI secolo, in
legno policromo di carrubo d'origine bizantina, che fu la prima Madonna che
si venerò a Siponto. |
MANFREDONIA Telefono: +39 0884581844 L'edificio molto singolare con forma a pianta quadrata, con due
chiese indipendenti di cui una interrata, la cripta, due absidi a vista
poste sulle pareti sud e est, un portale monumentale rivolto ad ovest verso
la strada che entra in Manfredonia, databile per le sue
caratteristiche all'età medievale. La piccola campanella è stata posta nel
Settecento, mentre al centro della facciata era visibile lo stemma arcivescovile del vescovo di
Manfredonia Ginnasio (1586-1607)
che restaurò l'edificio. L'interno della chiesa è databile all'XI secolo. La chiesa è un gioiello
dell'arte romanico pugliese,
pur mostrando influenze islamiche e armene. Nel Marzo 2016 è stata inaugurata l'opera d'arte intitolata
"Dove l'arte ricostruisce il tempo" dell'artista Edoardo Tresoldi. Una ricostruzione
dell`antica basilica paleocristiana, alta 14 metri e pesante 7 tonnellate, fa
parte di un intervento complessivo di modernizzazione del sito archeologico
di 3,5 milioni di euro di fondi pubblici. Il sito archeologico a seguito
dell'intervento ha registrato un sostanziale incremento di visitatori. |
Grotta Scaloria La cavità Grotta Scaloria, importante sito archeologico ai piedi
del Gargano, nella immediata periferia Nord di Manfredonia, in contrada
Scaloria costituisce con la vicina Occhiopinto un unico complesso. Scoperta
casualmente nel 1932 in occasione della costruzione dell'Acquedotto Pugliese,
fu esplorata, all'epoca, nella sola parte alta da Quintino Quagliati. Nel
1964 un gruppo di giovani studenti di Manfredonia, casualmente scoprirono la
parte bassa e più ampia della grotta Scaloria, rinvenendo un centinaio di
vasi neolitici, dei laghetti ricoperti di calcite, tracce di fuochi ed uno
scheletro di un primitivo con i femori spezzati, forse testimonianza di una
tragedia speleologica di 6000 anni fa. Nel 1967 si attestò un rituale
religioso collegato al culto delle acque praticato in un particolare momento
del Neolitico intorno alla metà del IV millennio a.C. Tale rituale
prevedeva la deposizione di vasi in prossimità di grandi stalattiti spezzate
artificialmente o sui tronconi di esse con funzione di raccolta delle acque
di stillicidio. |
SP57, MANFREDONIA Nel 1968 proseguirono le esplorazioni, e fu trovato un passaggio
che metteva in comunicazione le due grotte: Scaloria e Occhiopinto. Furono
rilevati lungo tale tragitto ulteriori dodici vasi posti anch'essi sotto lo
stillicidio. Gli scavi del 1978-79 condotti dall'Università di Genova, dalla
University of Southern Mississippi e dalla University of California, nell'ambito
del programma di ricerche sul Neolitico del Sud Est dell'Italia coordinato da
Santo Tinè e Marija Gimbutas, rivelarono una lunga frequentazione della parte
alta della grotta dal Paleolitico Superiore fino alla fine del Neolitico. |
Siponto E’ una frazione/quartiere di Manfredonia in Puglia, distante circa 2 km dal
centro storico manfredoniano e oggi inglobata nell'area urbana della città di
cui risulta essere una zona residenziale oltre che quella più vicina
all'omonimo parco archeologico, tra i maggiori del Mezzogiorno
d'Italia. Fu un'antica città e porto dell'Apulia. Siponto, divenuta poi
Manfredonia, è una delle più antiche città italiane e fu una delle più attive
colonie romane. Il sito archeologico, di cui solo una parte è stata oggetto
di scavi, è di grandissimo pregio e valore e rappresenta oggi una delle aree
archeologiche italiane, risalenti alla fase romana, di maggior interesse per
ricercatori e visitatori. Infatti la città era un centro importante non solo
per quel che riguarda i commerci ma anche per la posizione strategica di cui
godeva. La località è un rinomato centro balneare conosciuto
come Lido di Siponto. La piana a sud del Gargano era abitata sin da
epoca neolitica. La grotta Scaloria -
Occhiopinto fu frequentata attorno alla metà del IV millennio a.C. per
scopi cultuali e come necropoli. Sono
stati rinvenuti contenitori di ceramica dipinta collocati su tronconi
di stalagmiti spezzate e con
all'interno stalattiti concrezionate
per lo stillicidio delle acque ricadenti dalla volta. L'insediamento di Coppa Nevigata sorge nel VI millenio
a.C. su uno dei dossi ai margini di un'antica laguna costiera, odierna
località Cupola-Beccarini. Della prima metà del II millennio a.C. si hanno
tracce di una capanna a margini curvilinei, che in epoca immediatamente
successiva lasciò posto ad un grande muro difensivo, largo metri 5,5, nel
quale si aveva un accesso realizzato con blocchi megalitici. Più tardi la
fortificazione diventa più complessa con stretti passaggi, postierle e torri.
Nel sito si ritrova ceramica micenea, importata dall'Egeo che poi veniva
rirpodotta anche in loco. E murici frantumati per estrarre la porpora. Dal 1500 circa a.C. fino al IV secolo a.C. con l'arrivo
degli Iapigi dalle regioni dell'Illiria, nella penisola Balcanica,
fiorisce e si sviluppa, nella Puglia settentrionale, tra i fiumi Ofanto e Fortore, la civiltà Daunia. Nella Piana di Siponto furono
ritrovate centinaia di stele daunie, monumenti antropomorfi
istoriati in pietra del VII e VI secolo a.C. Secondo la leggenda, Siponto (e
altri centri Dauni) fu fondata dall'eroe omerico Diomede che sposò la figlia del
re Dauno, Evippe. Nel 335 a.C. fu conquistata assieme ad altre città italiche
da Alessandro
I, re dell'Epiro (e
zio di Alessandro Magno),
chiamato in aiuto dalla città magno-greca Taranto. L'occupazione avrà
accelerato il processo di ellenizzazione. Durante le Guerre puniche i Dauni e altri
popoli italici si schierano con i Romani, ma passano (a esclusione di Lucera)
dalla parte dei Cartaginesi dopo la sconfitta alla battaglia di Canne nel
216 a.C. |
MANFREDONIA Periodo Romano Nel 194 a.C. Roma fece aspra vendetta sulle antiche città che le
furono infedeli. Tra queste, vi fu Arpi alla quale fu tolta la libertà,
furono abbattute le mura, le monete proprie e ogni altro diritto, fu
confiscato il territorio (e l'approdo marittimo) di Siponto. Il centro dauno
diventò colonia di
cittadini romani. A seguito del progressivo impaludamento della laguna e la
conseguente insalubrità l'insediamento fu spostato più a nord nell'attuale
Santa Maria di Siponto. Otto anni dopo fu però necessario l'invio di un nuovo
contingente di coloni, perché la città era già spopolata, a causa della
malaria o della scarsa appetibilità di tale territorio causata dalla siccità. I primi cristiani perseguitati si rifugiano sottoterra per
pregare negli Ipogei di Siponto.
Nel IV secolo con l'Editto di Milano il
cristianesimo diviene la religione ufficiale dell'impero. Secondo una
leggenda, Siponto diventò una delle prime sedi vescovili d'Italia, il suo primo vescovo Giustino di
Siponto sarebbe stato nominato direttamente da San Pietro. Il primo vescovo di cui si
abbia notizia certa fu Felice I, il quale partecipò al Sinodo romano
del 465. A lui viene attribuita la prima chiesa paleocristiana ad
una sola navata con mosaici pavimentali a tessere bianche e nere, situata
accanto all'odierna Basilica
di Santa Maria Maggiore. Medioevo Nel V-VI secolo il santo vescovo Lorenzo Maiorano amplia la chiesa a
tre navate a forma di croce latina, ornata di pavimento musivo policromo. I
resti di entrambi i mosaici pavimentali del V e VI secolo sono esposti sulla
parete sinistra della Basilica
di Santa Maria Maggiore. Costruisce anche il Battistero e la
Basilica dei Santi Protomariri Agata e Stefano (oggi chiamato Ipogeo Scoppa
I). Sotto il suo episcopato inizia il culto di San Michele nell'area
dell'odierno Santuario.
Avrebbe fermato la distruzione di Siponto assediata dall'ostrogoto Totila. Nella metà del VI secolo l'area viene invasa dai Longobardi, che si scontrano più volte
con i Bizantini per il possesso della Puglia. Siponto divenne sede di
un Gastaldo. Durante il IX secolo Siponto
fu occupata per alcuni anni dai Saraceni. Negli ultimi decenni del X secolo la Puglia torna in mano
ai Bizantini. Dal 1042 i Normanni la eressero a sede di una
delle loro dodici contee della Contea di Puglia. Nell'XI secolo Siponto dové conoscere una rapida decadenza,
probabilmente a causa dell'interramento del porto, e della presenza della
malaria dovuta alle paludi circostanti la cittá. Siponto era sugli itinerari di pellegrinaggi. Fuori le mura,
alla fine dell'XI secolo o inizi del XII viene edificata l'abbazia
di San Leonardo. Nel 1117 viene consacrata l'attuale chiesa
romanica di Santa Maria. Nel 1223 la città fu
scossa da un violento terremoto.
Un altro terremoto (e forse maremoto) la ridusse in rovine nel 1255. Manfredi di
Sicilia stabilì allora che la città fosse ricostruita in una
più a nord, sulla costa rocciosa. Nacque così Manfredonia. Da ciò il nome di manfredoniano o sipontino per
gli abitanti della città. Periodo Moderno Tra il 1930 e
il 1940 il Consorzio di Bonifica della Capitanata avviò
la bonifica delle paludi
sipontine, trasformandole in campi coltivabili, parte di questi
terreni furono adibiti alla costruzione di villette residenziali; nacque così
il lido di Siponto, che con il passare degli anni sarebbe divenuto una
stazione turistico-balneare, frequentata soprattutto dagli abitanti delle
città pugliesi della Capitanata. |
Castello di Monte Sant’Angelo Le prime testimonianze sulla struttura del castello di
Monte Sant'Angelo, sito nell'omonimo paese in provincia di
Foggia, risalgono ai tempi del vescovo Orso I, vescovo di
Benevento e di Siponto che avrebbe fatto edificare,
negli anni 837-838,
il castellum de Monte Gargano, con successive modificazioni e
rifacimenti. Fino al IX secolo non c'era il castello, ma solo un castrum bizantino, poi il castello
fu dimora di principi della signoria dell'Honor Sancti Angeli: fu
di Rainulfo (conte di Aversa) e poi di Roberto il
Guiscardo che, dopo aver cinto la città di mura, nell'XI secolo fece riedificare la parte
più antica, la torre dei Giganti (di forma pentagonale, alta 18 metri e con
mura spesse 3 metri). La struttura venne assumendo importanza nella difesa
del Gargano uno dei tre Castra exempta (privilegiati).
Ospitò Federico II di
Svevia e la sua prediletta, la contessa Bianca Lancia di Torino, e per
questo presenta opere architettoniche in stile federiciano, imponenti, ma
raffinate come testimonia la sala duecentesca con un pilastro centrale e
volte ogivali ("la sala del Tesoro"). Sotto la dominazione normanna furono edificate la torre
dei Giganti e la torre Quadra, mentre Federico II fece
costruire la cosiddetta sala del Tesoro. L'attuale fortificazione evidenzia soprattutto l'influenza
degli Aragonesi che,
per difendersi dai nemici, realizzarono il torrione a forma di mandorla e il
fossato che precede il portale di ingresso. Gli Angioini curarono
assai il maniero, ma di esso si servirono come prigione di stato: famose sono
le detenzioni di Filippa
d'Antiochia (principessa sveva) che vi morì nel 1273,
e quella della regina Giovanna I di
Napoli (forse ivi assassinata) e le cui spoglie sono
presumibilmente a Monte Sant'Angelo, nella chiesa di San Francesco. Divenne anche dimora di principi durazzeschi: infatti qui nacque Carlo III di
Durazzo, poi re di Napoli e
d'Ungheria. Nel XV secolo, tra
il 1491 e il 1497,
con l'invenzione delle armi da fuoco, furono indispensabili
interventi sulla struttura che venne affidata a Francesco
di Giorgio Martini (ingegnere militare del XV sec), ed
assunse l'aspetto che conserva tuttora. Nel 1552, sotto approvazione del Re Carlo IV,
il feudo ed il castello furono acquistati dalla Famiglia Serra Grimaldi, la
quale ne assunse i pieni diritti feudali. Dal 1552 fino alla fine del XVIII
secolo, altre famiglie acquisirono potestà del castello e annesso territorio
feudale, (sotto rapporti di vassallaggio) tra le quali gli Arcella ed i
Vischi. Il castello fu ceduto nel 1802 al Municipio di Monte Sant'angelo
che ne assunse definitiva proprietà nel 1810. Nell'ultimo secolo il castello di Monte Sant'Angelo è stato
oggetto di diversi interventi di restauro. |
MONTE SANT’ANGELO Telefono: +39 0884562062 Esso è situato nella parte alta del paese. La fortezza risale alla prima metà del IX secolo, quando Orso I, vescovo
di Benevento, fece edificare, tra l'837 e
l'838, un castrum bizantino, contribuendo così
al venire ad esistenza del castellum de Monte Gargano. In seguito i
principi dell'Honor Montis Sancti Angeli fecero costruire la cosiddetta torre
dei Giganti, una maestosa torre pentagonale alta 18 metri e con mura spesse 3
metri. Il castello era fornito di alcune zone residenziali in cui abitavano
il capitaneus, i funzionari e la guarnigione armata; ma anche di
scuderie, magazzini, cisterne, mulino, forno, falegnameria, cappella, uffici
amministrativi. Non mancavano locali destinati a carcere: un'orrida prigione
è situata nei sotterranei della torre dei Giganti. Di quell'epoca è ancora
ben conservata una sala duecentesca con un grande pilastro centrale e volte
ogivali, comunemente detta sala del Tesoro. Con il passare del tempo il castello
fu potenziato con due torri tronco-coniche, dal bastione orientale e da un
sistema di cortine in muratura dotate di feritoie. In origine poi il castello
era difeso da una muraglia, di cui non rimangono che i ruderi, e da un
fossato valicabile per mezzo di un ponte levatoio, poi sostituito da uno
fisso sostenuto da due archi. Alla costruzione si accede tramite un portale,
il quale è preceduto dal ponte a due archi collocato attraverso il fossato
che anticamente circondava la fortezza. Entrando si incontra il posto di
guardia posizionato sulla destra, e un ampio locale in cui si trovano le scuderie
e il deposito delle munizioni. Sulla sinistra si aprono due porte: attraverso
la prima si raggiunge l'esterno del castello, attraverso la seconda una scala
che conduce alla sommità del sovrastante Torrione a carena. Si accede quindi al vestibolo, costituito da un cortile lungo 21
metri e largo più di 4 metri, che immette nell'ampia corte interna, limitata
dagli spalti che difendevano il fossato e da due torri cilindriche, fra le
quali si apre il portale del corpo centrale del castello. Di qui una scala sale ai piani superiori, dove si può visitare
la sala del Tesoro: un ampio ambiente illuminato da un'unica finestra, con
soffitto a volte sorretta da un massiccio pilastro centrale. Da questa scala,
che doveva essere adibita alle feste e ai convivi, si accede da un lato agli
appartamenti del castellano, dall'altro a quelli dei cortigiani. ORARIO DI APERTURA: Dal Lunedì al Sabato dalle ore 09:00 alle
ore 13:00 e dalle ore 14:30 alle ore 18:00; Domenica chiuso |
Grotta Pagliacci Grotta Paglicci è una grotta situata in località Paglicci
(Rignano Garganico). Giacimento risalente al Paleolitico (inferiore, medio e
superiore) e ricca di graffiti,
rudimentali pitture parietali e
impronte di mani, in essa sono stati scoperti più di 45.000 reperti, quasi
tutti conservati presso gli archivi della Soprintendenza archeologica di
Taranto e nella mostra-museo di Rignano Garganico.
Molto simile alla grotta Romanelli in pitture e
graffiti, è uno dei siti di interesse archeologico di maggior rilievo in
Italia. Nella grotta sono state rinvenute anche tre sepolture e numerosi
resti umani singoli, risalenti al periodo Gravettiano ed Epigravettiano. Si è ormai concordi nel
ritenere i resti di Paglicci appartenenti all'uomo di Cro-Magnon. |
PAGLIACCI Il 10 luglio 2006 si è scoperto
che la grotta ha subìto gravi danni a causa di atti vandalici compiuti da
ignoti. Nel luglio del 2008 si è invece scoperto casualmente il distaccamento
di una parte della parete esterna, che sta mettendo a rischio l'intera
grotta. L'Università degli studi di Siena ha
chiesto formalmente una maggiore tutela, poiché è stata danneggiata la parte
più importante della grotta. Inoltre, è stato danneggiato ed estirpato il
ponteggio di ferro che permetteva agli archeologi di tutt'Italia e del
mondo di camminare sopra senza rovinare il suolo della grotta e suoi preziosi
contenuti e che permetteva di arrivare all'atrio della grotta. |
Sculture Litiche del Romandato Le sculture litiche del Romandato sono numerose
sculture litiche ritrovate nei pressi del torrente Romandato (o Romondato),
nel comune di Rodi Garganico in Puglia, risalenti al Paleolitico inferiore che, sul Gargano, risulta diviso in filoni
culturali principali: Clactoniano, con
industrie su scheggia, e Acheulano, quando appaiono i manufatti
bifacciali, principalmente sculture litiche tra cui quelle del Romandato. Lo
studio dei manufatti litici sotto un aspetto fisico, poi, ha permesso di
distinguere all'interno del Clactoniano, altre due fasi Prima Fase, la più antica, che comprende schegge robuste, grandi
nuclei discoidali e strumenti du ciottoli, con forti segni di trasporto
detti fluitazione. Protovalloisiano, più recente ed evoluta e così definita perché
anticipa la tecnica Levallois,
che comprende schegge più piccole e regolari che spesso assumono la forma
lamiforme. |
RODI GARGANICO L'Uomo di Romondato Una di queste sculture litiche è l'Uomo di Romondato. Si
tratta di una scultura in selce che
raffigura una testa umana con bocca spalancata, priva di collo e fronte. È alta 23,5 cm, lunga 29 cm, larga 18,5 cm e pesa 11,5 kg. Sul fondo della bocca sono presenti incrostazioni di molluschi che indicano un'antica
permanenza in mare. La scultura risulta essere lievemente fluitata per il rotolamento alluvionale e per le onde marine, anche se il tutto non è stato deturpante ai fini della distruzione delle tracce di lavorazione. Prima della curva della calotta cranica, infatti, sono ancora visibili due asportazioni, che formano una "V" allargata, che potrebbero essere state la raffigurazione degli occhi. Altri reperti Reperto 1 Scultura litica antropomorfa bifronte risalente
al periodo di transizione tra Olduvaiano e il Clactoniano antico ricavata da un
nodulo di selce che raffigura due teste unite per la nuca ma di diverse
dimensioni. Reperto 2 Si tratta di una scultura risalente al periodo
compreso tra l'Olduvaiano e
il Clactoniano antico
ricavata da un nodulo di selce che raffigura due teste unite per la nuca che
guardano in direzioni opposte. |
Necropoli La Salata La necropoli "La Salata" rappresenta il complesso cimiteriale di epoca paleocristiana col maggiore sviluppo del Gargano. Costruita su un costone di falesia di circa 30 metri, lungo la spiaggia nel comune di Vieste, è compresa nel Parco nazionale del Gargano. |
SAN NICANDRO GARGANICO |
Sant'Annèa (o Santannèa) è una località che prende il nome da un'antica ed estesa villa romana situata alle porte
del Gargano, su un'altura elevata meno di 100
m s.l.m. a circa 3 km a Sud del Lago di Lesina. Fondata probabilmente nella tarda età repubblicana,
si sviluppò notevolmente nel periodo imperiale, soprattutto verso il
III-IV secolo d.C. Ne restano pochi ruderi, visibili attraverso murature emergenti
costruite in opus reticulatum, opus listatume opus incertum. Il fondo della villa rustica doveva
svilupparsi per molte decine di ettari a giudicare dalla estensione dei
fabbricati di pertinenza, che ne testimoniano verosimilmente l'importanza socio-economica
locale. |
SAN NICANDRO GARGANICO Con molta probabilità fu
definitivamente abbandonata negli ultimi secoli del I millennio d.C. La
tradizione locale la tramanda come luogo i cui abitanti fuggiaschi, a seguito
di scorrerie nemiche, si spostarono in una zona maggiormente difendibile
fondando San
Nicandro Garganico, nel cui territorio comunale tuttora insiste. |
Terra Vecchia La Terra Vecchia è il nucleo più antico della città
di Cerignola, risalente con tutta
probabilità all'epoca romana. Si presenta come un tipico aggregato
urbano medievale ad
accerchiamento dalla forma circolare. È situato nella parte nord della città
su una collina. Cerignola si trova al crocevia di due importanti sistemi infrastrutturali: i tracciati dauni e romani ed i tratturi per la transumanza, tant'è che in epoca romana la città rappresentava già un insediamento di scambio. Ad avvalorare la tesi dell'origine romana del borgo vi è il suo impianto urbanistico, ricco di elementi di ortogonalità tipici dei centri del Medioevo sviluppatosi su agglomerati preesistenti. In epoca medievale il borgo, ridotto a sede di feudo, fu dotato di castello, torri e cinta muraria. Resti delle mura sono osservabili lungo via 13 Italiani e via Torrione. Attualmente invece risulta essere perimetrato da una serie di costruzioni che ne delimitano i confini. Il tessuto viario è disordinato e si sviluppa intorno ad un asse principale, via Piazza Vecchia, che collega le due principali porte d'ingresso alla città (l'Arco della Piazza o Pignatelli e l'Arco di Carbutto ) e in cui confluiscono numerose stradine strette e tortuose caratterizzate dall'assenza del marciapiede. La pavimentazione è ad acciottolato strutturato in forme geometriche riquadrate da lastre di pietra. Il borgo presenta una tipologia assortita di abitazioni: case ad un solo piano, i cosiddetti bassi , composti da un solo vano e generalmente privi di finestre; gli iusi, ovvero abitazioni poste al disotto del piano stradale per circa 4 metri; i vignali o soprano elevati rispetto al piano stradale e a cui si accede attraverso una scalinata esterna, queste case erano destinate alle classi più abbienti e spesso erano arricchite da elementi architettonici quali: verande, lesene ed incorniciature architettoniche ed infine troviamo le case a più piani (Palazzo Matera, Palazzo Bruni, Palazzo Gala e il Palazzo della Chiesa) che ospitavano invece le famiglie nobili più influenti e risalenti circa al XV-XVI secolo. L'antico borgo ospita anche la vecchia cattedrale, la chiesa madre, che è anche il tempio più antico della città (XI-XIII secolo), che divenne sede vescovile nel XIX secolo. Attualmente è sede della parrocchia di San Francesco d'Assisi. Sempre nel borgo troviamo, inoltre, la Chiesa di Sant'Agostino con annesso il convento (XV secolo), la Chiesa di San Leonardo (XV secolo) e la Chiesa di San Giuseppe o della Santissima Trinità o di Sant'Elena. Oltre alle numerose chiese ed alle diverse tipologie di palazzi, il borgo è caratterizzato da molte testimonianze epigrafiche: semplici date, attestazioni di proprietà e motti. |
VIESTE Interessante è un'iscrizione su tufi che fa riferimento al terremoto del 1731.
Proprio quest'ultimo causò notevoli danni all'intero centro storico,
distruggendo buona parte degli edifici, tra cui il castello che fu
semidistrutto. Nella seconda metà del '700 iniziò la fase di ricostruzione
del borgo e si assistette ad un'ulteriore espansione della città al di fuori
delle mura. La ricostruzione avvenne però in maniera del tutto caotica, con
edifici privati dei piani superiori, distrutti dal terremoto, e con altri costruiti
riciclando le macerie di altre abitazioni. Nell'Ottocento il borgo raggiunse la sua
fisionomia definitiva, anche perché le espansioni della città non
interessarono più il borgo, che anzi cominciò a trovarsi in posizione
abbastanza decentrata rispetto all'abitato. Fortunatamente è possibile
affermare che la parte più antica della città conserva quasi inalterata la
sua fisionomia originaria, rappresentando di fatto un'importante
testimonianza storico-culturale. Attualmente sono in atto lavori di
ristrutturazione atti alla sua riqualificazione. |
Siti Archeologici della Provincia di Lecce |
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Quattro Macine Le Quattro macine (Giuggianello) è un casale medievale
dell'antica Terra d'Otranto attestato
per la prima volta in un diploma del 1219 di Federico II, a favore dell'arcidiocesi di
Otranto. Tuttavia datazioni al C14 hanno attestato che il
villaggio esisteva sin dall'VIII sec. Nell'area sono state messe in evidenza dagli scavi archeologici
condotti dall'Università del
Salento (allora di Lecce), due chiese, una delle quali da riferire
probabilmente al X-XI sec. di probabile proprietà nobiliare, in quanto nella
zona absidale è stata rinvenuta una sepoltura. Da riferire al XIII sec. è un
restauro dell'edificio religioso, qui sono stati rinvenuti oggetti liturgici
tipici del rito greco-ortodosso area in cui ricadeva chiaramente tale
edificio religioso: Due cucchiaini ed un coltello a forma di piccola lancia,
per tagliare il pane eucaristico, simbolo del corpo di Cristo. Da riferire
invece al periodo normanno (XI sec.) una seconda chiesa a due absidi adibita
anche alle sepolture e in utilizzo fino all'età angioina. Qui sono stati
messi in luce i resti di 75 individui. Il casale come accade anche in altri
casali della zona viene abbandonato nel corso del XV sec. Nel sito di Quattro
macine è documentato un attacco probabilmente avvenuto da parte dei saraceni nel corso del X sec; infatti qui
è stata rinvenuta una punta di freccia saracena, che offre paragoni anche con
analoghi rinvenimenti avvenuti al Monastero
di San Vincenzo al Volturno. La freccia è allungata e affusolata
di tipo molto differenti rispetto alle frecce occidentali, il tipo di freccia
saracena è particolarmente adatto all'utilizzo del piccolo arco composito
tipico delle popolazioni di tipo nomade e anche dei saraceni. Quattro Macine
non scompare con il casale infatti dopo il XV sec. si sviluppa intorno ad un
torrione una masseria che cesserà la sua attività nella seconda metà del
900'. |
GIUGGIANELLO |
Anfiteatro Romano di Lecce L'anfiteatro romano di Lecce è un monumento di epoca romana situato nella
centralissima piazza Sant'Oronzo.Risale all'età augustea. L'anfiteatro romano, insieme al teatro,
è il monumento più espressivo dell'importanza raggiunta da Lupiae,
l'antenata romana di Lecce, tra il I e il II secolo d.C. La datazione del monumento è ancora oggetto di discussione e
oscilla tra l'età augustea e quella traiano-adrianea. Il monumento venne scoperto durante i lavori di costruzione del
palazzo della Banca d'Italia,
effettuati nei primi anni del '900. Le operazioni di scavo per riportare alla
luce i resti dell'anfiteatro iniziarono quasi subito, grazie alla volontà
dell'archeologo salentino Cosimo De Giorgi e si protrassero
sino al 1940. Attualmente è
possibile ammirare solo un terzo dell'intera struttura, in quanto il resto
rimane ancora nascosto nel sottosuolo di piazza Sant'Oronzo dove si ergono
alcuni edifici e la chiesa
di Santa Maria della Grazia. |
LECCE L'anfiteatro misurava all'esterno 102 x 83 m, con l'arena di 53 x 34 m, e poteva contenere circa 25.000 spettatori. Del monumento, realizzato in parte direttamente nella roccia e
in parte costruito su arcate in opera quadrata, rimangono allo scoperto,
oltre ad una parte dell'arena ellittica, intorno alla quale si sviluppano le
gradinate dell'ordine inferiore, due corridoi anulari, uno che corre sotto le
gradinate, l'altro, esterno, porticato, cui appartengono i numerosi e robusti
pilastri, sui quali era imposto l'ordine superiore scandito, al pari di altri
similari monumenti, dal Colosseo all'Arena di Verona, in una galleria di fornici. L'arena, nella quale si tengono spettacoli teatrali e rappresentazioni sceniche di autori antichi e moderni, era divisa dalla cavea da un alto muro che era ornato da un parapetto (podium) adorno di rilievi marmorei a bauletto figuranti scene di combattimento tra uomini ed animali. Anche nel muro di divisione tra l'arena e la cavea si aprivano diversi passaggi di comunicazione col corridoio centrale ed un più angusto corridoio, scavato immediatamente dietro l'arena, era adibito ai servizi del monumento. |
Ipogeo Palmieri L'Ipogeo Palmieri, prestigioso esempio di architettura
funeraria messapica, è visitabile all'interno del
giardino di Palazzo Guarini, lungo via Palmieri a Lecce. Rinvenuta nel 1912 da un
appassionato di antichità locali, la tomba apparve già priva di corredo,
depredata probabilmente nel corso del XVI secolo, epoca a cui risalgono alcune
iscrizioni graffite sulle pareti del corridoio d'ingresso e delle celle. |
LECCE Lungo il corridoio di accesso alla tomba corrono due fregi
scultorei a bassorilievo di pregevole gusto artistico. Il fregio figurato si
compone di due lunghe lastre figurate, marginate sul lato superiore da una
cornice ed una file di ovuli; il suo discreto stato di conservazione consente
la lettura abbastanza precisa di ciò che vi è raffigurato, ovvero un
combattimento tra guerrieri a piedi e a cavallo. Il fregio floreale,
incassato nella parete opposta, è costituito da tre lastre: al centro,
emergente da un cespo d'acanto, un volto femminile con copricapo, associato a
due steli che si snodano ai suoi lati occupando tutta la lunghezza del
fregio. Sulla base di confronti stilistici e tipologici, per la tomba
leccese, realizzata evidentemente per una famiglia locale aristocratica, è
stata proposta una cronologia all'inizi del III secolo a.C. |
Rudiae Rudiae (in salentino Rusce ['Ruʃe], in greco antico Ροδίαι) è un'antica
città messapica, nell'area di influenza della
colonia dorica di Taranto. La città è nota soprattutto per
aver dato i natali allo scrittore latino Quinto Ennio. Viene oggi identificata con
i resti archeologici situati nel comune di Lecce, lungo la strada per San Pietro in Lama. |
LECCE Rudiae è identificata con i resti archeologici rinvenuti
nella prima periferia di Lecce, a circa 3 chilometri dal centro abitato, in
direzione sud-ovest. Una menzione di Rudiae come collocata
presso Lupiae, l'antica Lecce si ha in un resoconto di
epoca normanna. Successivamente, nel XVI secolo, l'umanista Antonio De
Ferrariis detto il Galateo avanzò per primo l'ipotesi di
identificare la patria di Ennio con la località di Rusce, ipotesi poi
accettata e convalidata dallo storico ed epigrafista Theodor Mommsen. Secondo un'ipotesi oggi superata dall'evoluzione degli studi
archeologici e storiografici, il sito di Rusce era stato primariamente
considerato un sobborgo dell'antica Lupiae, a sua volta caratterizzata
da insediamenti umani sparsi "a macchia di leopardo" sul
territorio. Nel sito sono visibili le tracce di un anfiteatro, una necropoli e due cinte
murarie in blocchi di pietra calcarenitica (tufo). A giudicare
dall'estensione della cinta muraria si conta che l'intera area vanti
un'estensione di circa 100 ettari, il doppio delle dimensioni che raggiunse la
vicina Lupiae nel periodo romano. I
materiali rinvenuti ne attestano la frequentazione già a partire dal IX-VIII secolo a.C. e la nascita di un
insediamento di una certa importanza tra la fine del VI e il III secolo a.C. Successivamente la
città perse di importanza e già nel I secolo d.C. - secondo la
testimonianza di Silio Italico - era ridotta a un modesto villaggio, in
coincidenza del progressivo affermarsi di Lupiae, che proprio in quel periodo
(tra I e II secolo) si dotava
di un anfiteatro e
di un teatro. |
Teatro Romano di Lecce Il teatro romano di Lecce è un monumento di epoca romana situato nel centro storico della città. Di incerta datazione, il teatro è
assegnato al periodo augusteo. Il teatro
romano di Lecce fu casualmente scoperto nel 1929, durante
alcuni lavori eseguiti nei giardini di due palazzi storici della città
(palazzo D'Arpe e palazzo Romano). Gli scavi effettuati riportarono alla luce
la cavea (diametro esterno 40 m;
diametro interno 19 m) che, ricavata in un banco di roccia, fu rivestita
in opera quadrata.
Essa è divisa in sei cunei da cinque scalette radiali dei cui gradini ogni
coppia corrisponde ad uno di quelli riservati agli spettatori. Ogni cuneo è
costituito da dodici gradoni (altezza 0,35 m; profondità 0,75 m circa), molti
dei quali restaurati. Alla zona dell'orchestra,
che era il luogo riservato all'evoluzione del coro, si accedeva mediante una
stretta galleria coperta. |
LECCE Davanti all'orchestra, pavimentata a lastre rettangolari
di calcare bianco, si notano tre larghi
gradini che girano a semicerchio sui quali venivano, all'occorrenza,
collocati seggi mobili riservati ai notabili. Dietro i gradini è presente un
muretto (balteus) e, dietro l'orchestra, oltre al canale destinato a
raccogliere il sipario, è presente la scena (altezza dal piano dell'orchestra
0,70; profondità 7,70 m; larghezza 30 m). D'incerta datazione, il monumento è assegnato al periodo augusteo, al quale
apparterrebbero alcuni frammenti della decorazione fittile del balteus, mentre
all'età degli Antonini si
vuole risalgano le statue marmoree che adornavano il teatro. Attualmente
tutti i reperti facenti parte del teatro romano di Lecce sono custoditi
nell'adiacente museo omonimo. Si suppone infine che il teatro fosse capace di ospitare un
pubblico di oltre 5.000 spettatori, per il quale venivano rappresentate
tragedie e commedie. |
Roca Vecchia Roca Vecchia o Rocavecchia è una località costiera
del Salento e
una delle marine di Melendugno,
in provincia di Lecce.
Si affaccia sul Mare Adriatico ed
è posta tra San Foca e Torre dell'Orso. Sede di importanti scavi archeologici, è un centro turistico di
rilievo durante il periodo estivo. Si segnalano la torre di avvistamento
cinquecentesca, le rovine del castello a picco sul mare, il santuario della
Madonna di Roca del XVII sec. e le due grotte Posia (dal greco,
"sorgente d'acqua dolce"), meglio note come grotte della Poesia.
Queste ultime, in particolare, distanti circa 60 metri l'una dall'altra, sono
delle grotte carsiche cui sono crollati i tetti; l'acqua del mare giunge in
ciascuna di esse attraverso un canale percorribile a nuoto o con una piccola
imbarcazione. La più grande delle due ha una pianta approssimativamente
ellittica con assi di circa 30 e 18 metri e dista dal mare aperto una
trentina di metri. La Posia Piccola, invece, ha assi di circa 15 e 9
metri ed è separata dal mare aperto da una settantina di metri in linea
d'aria. La sua notevole importanza in ambito archeologico è legata al
rinvenimento nel 1983, grazie
all'archeologo Cosimo Pagliara, di iscrizioni messapiche (ma anche latine e
greche) sulle sue pareti, da cui è stato possibile stabilire che la grotta
fosse anticamente luogo di culto del dio Taotor (o
anche Tator, Teotor, o Tootor). A nord dell'area archeologica sorge il centro attualmente
abitato (22 residenti nel 2001), noto anche come Roca li Posti,
frequentato in estate da vacanzieri. Lungo la strada che collega Torre dell'Orso a Melendugno sorge il vecchio
villaggio disabitato, con una masseria fortificata attualmente in restauro,
di Roca Nuova. Tale borgo sorse intorno al 1480,
quando la popolazione di Roca Vecchia fu messa in fuga dalle incursioni
turche. |
MELENDUGNO Gli scavi effettuati a Roca hanno evidenziato un imponente
sistema di fortificazioni risalente all'età del bronzo (XV-XI secolo a.C.), oltre a numerosi reperti
che per affinità ricordano modelli minoici ed egei. Si ritiene che, in un periodo
databile intorno al XV secolo a.C., il sito sia stato assediato e incendiato.
Anche le successive mura, ricostruite nell'XI secolo a.C., presentano tracce
di incendio. Di questo luogo misterioso, che come la mitica Troia fu più volte distrutto e più
volte ricostruito si ignora chi fossero i popoli fondatori e perfino se
queste fortificazioni servissero a difendere una città oppure - come appare
più probabile - un importante luogo di culto. Il sito fu comunque frequentato
per tutta l'età del ferro,
mentre decisamente più cospicue sono le tracce relative all'età messapica
(IV-III secolo a.C.): una cinta muraria (che tuttavia non fu completata), un
monumento funerario, diverse tombe e delle fornaci. Il nome della città
messapica (o per meglio dire la sua latinizzazione) si pensa fosse Thuria
Sallentina. Il sito fu successivamente abbandonato (non sono state rinvenute
tracce del periodo romano), mentre fu frequentato nell'alto medioevo da
anacoreti, provenienti perlopiù dall'Impero Romano d'Oriente, che col tempo
costituirono una comunità, abitando in una serie di grotte scavate nel
calcare. Agli inizi del XIV secolo, Gualtieri di
Brienne, conte di Lecce, ricostruì Roca facendone una città
fortificata, ma nel 1480 la sua
popolazione venne messa in fuga dalle incursioni turche. In quell'anno
infatti il sultano Maometto II,
dopo aver conquistato Costantinopoli (1453)
e sottomesso tutta la Penisola Balcanica,
inviò una spedizione che sbarcò sulla costa orientale del Salento. Roca
Vecchia fu saccheggiata e usata dai Turchicome base operativa per sferrare
attacchi alla città di Otranto e ad
altri centri salentini. È in questo contesto che si colloca la figura,
ricorrente nei racconti dei casali di discendenza Rocana, Calimera,Melendugno, Borgagne e Vernole, della mitica Donna Isabella
sventurata, identificata forse come Maria d'Enghien [era morta più di 30 anni prima!],
castellana di Roca che perse il feudo, insieme al marito ed al figlio morti
in battaglia. La città, liberata nel 1481,
divenne successivamente covo di pirati,
tanto che nel 1544 Ferrante Loffredo,
governatore della provincia di Terra d'Otranto, dette l'ordine di
raderla al suolo. |
Apriglano Apigliano (Iapijianò in grico) è un antico villaggio medievale della Terra d'Otranto (odierno Salento) abbandonato tra il XIV e il XVI secolo per circostanze ancora da
precisare. Oggi è un sito archeologico unico nel suo genere. Oggi parte del territorio comunale
di Martano, l'antico casale di Apigliano si
trovava vicino al nucleo urbano di Zollino, ai limiti del territorio
comunale. Come risulta dal catasto onciario del 1746,
tale località fino al XVIII secolo era una pertinenza del
comune di Zollino, ma per un errore di trascrizione
degli atti ufficiali venne assegnato dal XIX secolo in poi al comune di
Martano. Le prime notizie documentate, riportanti la situazione fiscale
della località, risalgono al XIII secolo d.C., anche se i primi
villaggi relativamente stabili nel Salento, attraverso ricerche condotte
dall'Università del
Salento, sono da riferire all'VIII secolo. Attualmente del casale
rimane solo la chiesetta sconsacrata intitolata a Santa Maria, ma conosciuta
dagli abitanti del posto come Chiesa di San Lorenzo. |
MARTANO Nel 1997 la Facoltà
di Beni Culturali dell'Università
del Salento ha avviato nella località una prima campagna di scavo, sotto la
direzione del Prof. Paul Arthur, che ha portato alla luce una realtà ormai
dimenticata. In particolar modo gli elementi raccolti sono in grado di
fornire informazioni circa due periodi cronologici: il periodo bizantino e il
periodo angioino. Con riferimento al periodo bizantino
sono stati rinvenuti resti di alcune abitazioni rurali costruite con la
tecnica del muro a secco che evidenziano la presenza di un insediamento
abbastanza esteso. Sono stati trovati anche vari oggetti di vita quotidiana (
un coltello, una punta di freccia, un punteruolo, un anello appartenente
probabilmente ad funzionario dell'amministrazione tributaria bizantina, ecc.)
e un forno per la lavorazione dei metalli. Più ricchi sono invece i ritrovamenti riferibili al periodo
angioino. Innanzitutto sono stati riportati alla luce i resti di una chiesa,
che si ritiene sia la Chiesa di San Giorgio (descritta nella visita pastorale
del 1608). Nel 2007 la chiesa, originariamente costruita in terra, è stata
ricostruita in posto. Sia all'interno che all'esterno della chiesa sono state
ritrovate numerose tombe e ossari (ben 52) e oltre 40 scheletri umani. Si è
notato che ogni tomba era usata per più inumazioni. Inoltre, particolarità
del cimitero è il fatto che le tombe dei bambini fossero disposte sul
perimetro laterale della cappella, in modo che l'acqua piovana, venuta a
contatto con gli spioventi del tetto dell'edificio sacro e quindi
santificata, avesse potuto benedire i loro corpi. All'interno delle tombe
anche numerosi oggetti di vita quotidiana (orecchini, collane, fibbie,
cinture, un anello matrimoniale, vestiti). In seguito all'abbandono del villaggio nel XVI secolo, è stata
creata una masseria, tuttora esistente. |
Centopietre Centopietre è un antico monumento funerario di interesse
nazionale situato nel comune di Patù in provincia di Lecce. Il nome Centopietre deriva dal fatto che la costruzione era
originariamente composta esattamente da cento pietre (oggi 99) incastonate
fra di loro. La sua struttura ha dato luogo a diverse collocazioni storiche;
tuttavia è databile al IX secolo e
venne edificato come mausoleo sepolcrale del generale Geminiano, messaggero di
pace trucidato dai saraceni subito
prima della battaglia finale tra cristiani e infedeli di Campo
Re del 24 giugno 877, ai piedi della
collina di Vereto. |
PATU’ Le centopietre è una singolare costruzione di forma rettangolare
costruita con 100 blocchi di roccia calcarea provenienti dalla vicina
città messapica di Vereto. Le sue dimensioni sono queste:
lunghezza m. 7,20; larghezza m. 5,50; altezza m. 2,60. La copertura è a tetto
a due falde. All'interno presenta diversi strati sovrapposti di affreschi a
soggetto sacro, risalenti al XIV secolo. In particolare sono
raffigurati tredici Santi di origine orientale, eretti e frontali, secondo
uno schema di ispirazione basiliana, che testimonia la trasformazione del
monumento in chiesa
paleocristiana durante l'epoca medioevale. Il monumento, per secoli lasciato
all'oblio, nel 1872 nacque all'interesse degli
studiosi. Nel 1873 il governo lo dichiarò Monumento
nazionale di seconda classe. |
Vereto Vereto è un'antica città messapica situata a poca distanza
dal comune di Patù in provincia di Lecce.
Situata sull'omonima collina, fu un importante centro per il commercio, sia
con la Grecia che
con la Magna Grecia.
Divenne municipio romano e
poi fu rasa al suolo nel IX secolo ad opera dei Saraceni.
Di tale centro, rimangono alcune testimonianze monumentali. |
PATU’ Dalle sue rovine ebbe origine Patù. Il suo nome, dal
greco Pathos, Πάθος, spiega le ragioni della sua esistenza (sofferenza).
Secondo altre ipotesi, essendo un granaio dove i veretini riponevano le
vettovaglie, ebbe il nome del custode: Verduro Pato. Poi, per influenza della
dominazione francese, Pato divenne Patù. |
Siti Archeologici della Provincia di Taranto |
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Saturo Saturo è una località sulla Litoranea
Salentina della Marina di Leporano, in provincia di
Taranto, e ospita sul suo promontorio l'omonimo parco archeologico.
Saturo dista circa 12 km da Taranto ed è raggiungibile percorrendo la
Litoranea Salentina. La località si estende sia nel versante interno della
litoranea (fino a raggiungere il territorio della città di Leporano), sia in
quello esterno (fino a raggiungere la costa e le spiagge di Saturo, Canneto e
Porto Pirrone). Saturo è molto frequentata nei mesi estivi, poiché
costituisce una zona residenziale di villeggiatura, ma è poco abitata per il
resto dell'anno. Non sono presenti industrie di alcun tipo: solo appezzamenti
di terreno destinati all'agricoltura (uve, olive, verdure). La sua importanza
è dovuta, principalmente, alla presenza di un sito archeologico che ricopre
un intervallo storico che inizia dal XVIII secolo a.C. e termina al XVI secolo
d.C. Parco Archeologico Promontorio di
Saturo L'istituzione di un parco archeologico sottolinea
l'importantissima valenza storica ed archeologica del sito in questione,
difatti estesa all'intera località formata da un'ampia valle fluviale ricca
di testimonianze archeologiche comprese tra l'età Neolitica e quella Alto-medievale, non tutte tutelate e ricadenti
in proprietà private. La lunghissima fase di vita di questo promontorio
costiero e della valle retrostante dipende dalla sua particolare
conformazione geologica e posizione geografica, la prima la inserisce tra
quelle località costiere dotate di doppio approdo, la seconda dipende dalla
stretta vicinanza con il grande Porto di Taranto. In particolare, all'interno
del Parco è possibile ammirare e visitare parte del grande insediamento
indigeno dell'età del Bronzo e del Ferro, caratterizzati da un
piccolo aggere di consolidamento, i resti di
un santuario poliadico dedicato ad Atena, due ampie porzioni riguardanti
una villa romana di Età imperiale (II-IV secolo d.C.) che occupava gran
parte del promontorio costiero. La grande struttura romana si poggiava, a
sud, verso la costa, su un cripto-portico utilizzato come passeggiata di
belvedere e che congiungeva l'abitazione privata alle terme pubbliche dotate di una grande
piscina. Risale a quest'epoca la costruzione di un probabile pontile o molo
di attracco, secondo altri interpretabile come barriera frangi-flutti
(visitabile). All'interno del parco è visibile, inoltre, una torre costiera di avvistamento
del XV secolo, ancora integra, ma in attesa
di restauro. Il parco abbraccia un promontorio di notevole interesse
naturalistico e paesaggistico. Il terreno del parco è di proprietà comunale.
Dal 2006, la cooperativa PoliSviluppo, formata da archeologi, realizza visite
guidate, progetti didattici, laboratori di archeologia sperimentale,
promozione e si occupa della manutenzione ordinaria, apertura del Parco e
realizzazione di progetti scientifici. Leggende La leggenda racconta che Taras,
uno dei figli di Poseidone, circa
2000 anni prima di Cristo, sarebbe giunto qui e avrebbe fondato questo
insediamento che dedicò a sua madre Satyria o a sua moglie Satureia. Il
toponimo è incerto anche tra la derivazione sat ur (città del
sole), e quella mediorientale satyr (valle). Un'altra leggenda, complementare, racconta che qui approdarono,
nell'VIII secolo a.C.,
i coloni greci provenienti da Sparta, che, guidati da Falanto, sottratto il territorio agli
Iapigi, fondarono la città di Taranto che in seguito divenne una
delle città più importanti della Magna Grecia. Storia L'area compresa fra le baie di Saturo e Porto Perone, nella
quale sorge il Parco Archeologico di Saturo, è uno dei luoghi più
significativi del Mediterraneo,
sia per quanto riguarda le fasi della preistoria e della protostoria, sia per le vicende relative
alla colonizzazione del tarantino da parte dei coloni greci provenienti
dalla Laconia. Le due insenature contigue
offrivano, infatti, riparo alle navi con qualsiasi condizione del vento e il promontorio
offre una posizione privilegiata per il controllo dell'orizzonte. In più, la
presenza di ricche sorgenti, consacrate come santuari già da prima della
fondazione della colonia greca di Taranto, ha fatto sì che la zona fosse
abitata fin dall'Età del Bronzo (a
partire dal XVIII secolo a.C.) e frequentata da viaggiatori e mercanti
micenei. In età romana imperiale, la bellezza dei
luoghi e la salubrità dell'ambiente hanno determinato la costruzione di
un'importante villa romana già nota agli storici locali dei secoli scorsi. In
epoca tardo antica, dopo l'abbandono nel VI secolo d.C. della villa,
l'insediamento si sposta all'interno per ragioni di sicurezza e di lì a poco,
con l'incastellamento degli abitati precedentemente organizzati in nuclei
sparsi e non fortificati, nascerà il borgo di Leporano. Protostoria: dall’età dal bronzo
alla colonizzazione Greca
Nel periodo di tempo compreso tra i secoli XV e XIV a.C. la zona
non è abitata, come dimostra uno strato di terreno sterile, probabilmente per
il carattere mobile delle comunità di pastori dell'epoca. All'inizio della
fase Tardo Appenninica (XIII
secolo a.C.), il villaggio rinasce con aspetti proto-urbani: le capanne sono
di forma sub-circolare e ricostruibili grazie alle tracce dei pali di legno
che fungevano da strutture portanti, mentre le pareti erano in incannucciata
e intonaco a base argillosa. Tutto il villaggio era circondato da un grande
muro a secco, ora non più visibile, che aveva un'altezza di tre metri e una
base larga cinque metri (muro che costituiva anche opera di terrazzamento), e
che all'esterno era circondato da un fossato (forse per il drenaggio delle
acque piovane) e da un altro muro più piccolo. Quest'opera di ingegneria
rivela il carattere organizzato della comunità di Saturo/Porto Perone, che
ricevevano modelli culturali dal Mediterraneo orientale, come provano i
numerosi frammenti di ceramica micenea rinvenuti. A partire dall'XI secolo
a.C., e sino alla fondazione di Taranto, il villaggio che viene nuovamente
costruito presenta gli aspetti tipici della cultura iapigia dell'Età del Ferro. |
LEPORANO La frequentazione greca: secoli VIII
– III a.C. Il toponimo Saturo è esattamente il nome che i greci usavano per
indicare questo luogo. Tale nome è indicato dalle fonti antiche che narrano
la colonizzazione greca e la fondazione di Taranto. Età romana: dall'era repubblicana
(II - I secolo a.C.) all'era tardo-imperiale (III - VI secolo d.C.) La situazione cambia radicalmente con la conquista romana del
tarantino. Alla fase romana è pertinente anche la lunga cisterna tagliata
nel versante sud dell'acropoli, che si conserva per tutto l'alzato e che è
stata individuata nel corso dei lavori per la realizzazione del parco. Villa romana La villa di Saturo risale, nella sua
prima costruzione, alla prima Era Imperiale (I
secolo a.C.), come dimostra la presenza di frammenti di ceramica sigillata (ceramica
fine da mensa, ovvero destinata ad essere utilizzata come servizio da
tavola), di vasellame per uso domestico, frammenti di lucerne del tipo
africano e di marmi policromi, e di una moneta bronzea (custodita
al Museo di Taranto) dell'età di Settimio Severo ritrovata sotto un
pavimento a scacchiera di color rosso e bianco. Medioevo ed Età Moderna (secoli VII
– XVI d.C.) Il passaggio dall'Età Romana al Medioevo può essere collocato
intorno al VI secolo d.C.; in quel periodo, infatti, si svolge la guerra
tra Goti e Bizantini per il possesso
dell'Italia, conclusasi a favore dell'esercito bizantino di Giustiniano nel 553 d.C.. Fra il VII
ed il VIII secolo d.C. l'insediamento sembra collocarsi più all'interno,
probabilmente per difendersi dalle scorrerie arabe. Nel XII secolo,
l'arabo El Edrisi ricorda
Saturo un luogo di ancoraggio per le navi. Oggi Nel parco archeologico sono ancora visibili: ·
i resti della villa romana e del suo
porticato; ·
la torre anticorsara; ·
l'acropoli con i suoi spalti; ·
la necropoli; ·
la grande cisterna tagliata; ·
il Santuario della Sorgente; ·
la scalinata che scende
dall'acropoli al santuario; ·
le varie costruzioni realizzate
durante la II Guerra Mondiale; ·
le opere murarie ormai sommerse che
fungevano da frangiflutti e moli per l'approdo delle navi. Nella figura sono anche contrassegnate: ·
le zone dove sorgeva il ninfeo,
distrutto dalla costruzione del deposito militare, oggi sede del punto di
ristoro del Parco; ·
le zone dove sorgevano i giardini
della villa, oggi occupate dalla macchia mediterranea (tra cui, piante di rosmarino
e malva, alberi di mimose, di ginestre, canneti ecc.) e da varie panchine per
i visitatori del Parco; ·
l'ingresso principale del Parco. Il porticato dell'antica villa
romana è interrotto nel suo percorso dalla costruzione di un bunker, una
collinetta in cemento armato ricoperta con la terra. Nel bunker è ancora
visibile un ascensore manuale, costituito da un piano elevatore asservito da
contrappesi in cemento, che permetteva ad un grosso faro di fuoriuscire dalla
sua sommità, per l'illuminazione del mare (a favore delle batterie costiere)
e del cielo (a favore delle batterie contraeree). Ai piedi del bunker è
ancora presente una casamatta, così
come se ne trovano alla sommità dell'antica acropoli. |
Parco Archeologico delle Mura Messapiche Si estende per 150.000 m² a nord-est del comune
di Manduria, in provincia di
Taranto. Al suo interno sono conservati ampi tratti della triplice
cerchia di mura che in età messapica circondava la città, la più grande necropoli messapica mai scoperta (circa
2.500 tombe databili dal VI al II secolo a.C.), il Fonte Pliniano (un
pozzo alimentato perennemente da una falda acquifera sotterranea), e la
chiesa di San Pietro Mandurino, di epoca medievale. La Manduria del periodo Messapico era circondata da una triplice
cerchia muraria (datata tra il V ed il III secolo a.C.), una interna, una
esterna ed una disposta tra le prime due. La prima cerchia muraria,
quella più interna, fu costruita tra V e IV secolo a.C.; ha un perimetro di 2.187
metri e un diametro di 842 metri. Fu edificata con grossi massi di
pietra locale incastrati tra loro (senza quindi l'uso di malta).
Prima di questa cerchia muraria vi è un fossato, largo e profondo 4 metri. La
cerchia di mura intermedia, costruita nel IV secolo a.C., fu ottenuta interrando il
fossato e seguendo lo stesso perimetro della cerchia antica (proprio sotto
questa mura fu ucciso il re di Sparta Archidamo, nel 338 a.C.). La cinta esterna risulta
essere quella meglio conservata e quella più imponente: costruita con la
tecnica dell'opus quadratum,
ha un perimetro di 3.382 metri ed un diametro di 1.290 metri. Inoltre
raggiunge un'altezza e uno spessore di 5 metri. Anche questa cerchia è preceduta
da un fossato, largo 6,50 metri e profondo 5. Quest'ultima cerchia di
mura fu costruita intorno al III secolo a.C. Intorno alle mura vi erano anche delle strade che, attraverso
delle porte disposte ad intervalli regolari nelle mura e protette da
torrette, mettevano in comunicazione l'interno dell'abitato con
l'esterno. Dopo l'assalto della città ad opera di Quinto Fabio
Massimo le mura non furono più ricostruite. |
MANDURIA All'interno del sito, a ridosso delle mura, è presente la più
vasta necropoli messapica mai scoperta
(2.500 tombe in totale). La scoperta e la conseguente tutela della
necropoli è avvenuta nel 1932, ad opera
di Quintino Quagliati,
soprintendente ai beni archeologici della Puglia. Negli anni successivi sono stati
condotti nuovi scavi che hanno portato alla luce nuove tombe con all'interno
i corredi funebri. Le varie tombe scoperte percorrono un arco temporale che
va dal VII al II secolo a.C. Si è notato, inoltre,
che le tombe più recenti hanno subito cambiamenti sia della struttura che del
tipo di sepoltura del defunto. Tra i vari modelli di tombe, prevalgono quelle
del tipo a fossa rettangolare disposte a gruppi, probabilmente in base al
ceto sociale: molte di queste sono intonacate e presentano anche tracce di
pittura. Il Fonte Pliniano è tuttora uno dei simboli della città (è
rappresentato anche nello stemma cittadino); di epoca quasi certamente
messapica, venne descritto da Plinio il Vecchio (da
cui successivamente prese il nome) nella sua Naturalis Historia.
Si tratta di un pozzo posto all'interno di una grotta naturale di 18 metri di
diametro e 8 metri di larghezza raggiungibile scendendo 20 gradini
scavati nella roccia. Sulla volta della grotta si apre un lucernario
quadrato, una struttura cilindrica dalla quale spunta un albero di mandorlo (secondo la leggenda
secolare) dalla quale penetra la luce necessaria ad illuminare
l'ambiente. Dal pozzo e dalla vasca adiacente sgorga perennemente acqua
proveniente da una falda acquifera sotterranea. Anticamente il Fonte Pliniano
era adibito anche a luogo di culto di una divinità messapica. Anch'essa inclusa nel parco archeologico, probabilmente risale
all'età ellenistica,
epoca in cui era una tomba a camera. Successivamente, tra l'VIII ed il IX secolo fu costruita la cripta
sotterranea, adibita al culto bizantino; la chiesa superiore, invece, è
datata tra X e XII secolo. In epoca successiva la
chiesa fu abbandonata fino al 1724,
quando l'allora vescovo di Oria decise di farla
restaurare (vi è anche una lapide che lo attesta). La chiesa, orientata in
direzione est-ovest, secondo il rito greco, ha due navate e due
absidi divise da tre pilastri. Inoltre è divisa in due ambienti da un grande
arco centrale. Di questi due ambienti, uno ha una volta a cupola, mentre l'altro
è voltato a botte.
Lungo le pareti della chiesa e della cripta sottostante sono presenti
affreschi raffiguranti santi di difficile datazione (forse di epoca
bizantina) a causa dei pesanti rimaneggiamenti del XVIII e XIX secolo. Nel 1972,
sotto il pavimento dell'edificio, sono state scoperte alcune tombe di epoca
medievale. |
Cripta del Redentore La cripta della Madonna della Grotta è una chiesa
rupestre ipogea situata nel comune di Taranto. Originariamente era un'antica tomba a camera romana di età
imperiale situata in via Terni, collegata con un antico pozzo d'acqua
sorgiva. La grotta di forma circolare del diametro di
circa otto metri, le cui pareti sono decorate da affreschi di grande valore
artistico risalenti agli inizi del XII secolo. La cripta faceva parte della
Chiesa di Santa Maria di Murivetere, chiusa al culto nel 1578 da
Monsignor Lelio Brancaccio. La tradizione infatti afferma che nella cripta si celebrò il
primo culto cristiano secondo la liturgia bizantina. Nel XII secolo fu corredata da
affreschi di notevole bellezza tra cui il "Cristo Pantocratore tra
san Giovanni e la Vergine" nell'abside, e sulle pareti laterali
sono decorate con figure di santi "San Basilio", "Sant'Euplo" e "San Biagio" . Dopo il XIII secolo la
cripta fu abbandonata per parecchi secoli, probabilmente perché
eccessivamente periferica rispetto alla città, fino alla sua riscoperta
nel 1899 da parte dell'archeologo Luigi Viola, durante l'esecuzione di
alcuni lavori in una sua proprietà e inaugurata il 13 febbraio del 1900.
Nel marzo del 1979, grazie ad una petizione dell'Arcivescovo di Taranto
Monsignor Guglielmo Motolese,
si decise di intervenire per il suo recupero, realizzando opere di
consolidamento e di salvaguardia della struttura. Nel Dicembre 2011 il
sito è stato riaperto al pubblico. |
TARANTO La Leggenda di San Pietro La profonda devozione popolare, fece di quel luogo il teatro
della leggenda sulla prima evangelizzazione cristiana di Taranto. Come
risulta dalla "Historia Sancti Petri", l'Apostolo Pietro sarebbe
sbarcato verso l'ora terza nel porto della città, dopo una sosta
nell'odierna Isola di San Pietro.
Volendosi dissetare, si sarebbe diretto verso il luogo sacro in cui si
trovava il pozzo, vicino al quale si ergeva la grande statua in bronzo di una divinità pagana, probabilmente Zeus:
nel momento in cui il santo si sarebbe fatto il segno della croce per
dedicare il sito a Giovanni il
Battista, la statua si sarebbe frantumata. Questo avvenimento è
rappresentato nel dipinto "Ingresso di San Cataldo a Taranto",
realizzato dal pittore Giovanni
Caramia nel 1675, per adornare una
parete laterale del vestibolo della Cattedrale
di San Cataldo. |
Palazzo Delli Ponti Il Palazzo Delli Ponti di Taranto è uno dei palazzi del Borgo
Antico della città. Fu costruito nel 1709 dai fratelli Cataldo e Niccolò
Delli Ponti, mediante una complessa opera di accorpamento di due edifici
costruiti nel Cinquecento e
del Seicento, e
cioè il palazzo del Marchese Francesco
Maria Antoglietta e quello dei Principi di Gaeta. Il palazzo ha l'ingresso
principale su largo Immacolata, quello secondario su largo Gennarini e
l'accesso alla stalla su via Di Mezzo, collegata al palazzo mediante una
scala scavata nella roccia e con affaccio sul Mar Piccolo. La famiglia Delli Ponti, di antica origine romana, giunse a
Taranto nel XIV secolo. Il
palazzo fu restaurato nel XX secolo grazie ai finanziamenti
della Federazione
lavoratori metalmeccanici, che voleva farne un centro studi e
documentazione sulla storia del sindacato. Rimasto però abbandonato, fu
rilevato dal Comune per destinarlo a sede universitaria. Sulla facciata esterna si possono notare mascheroni barocchi con funzione di
sgocciolatoi ed una loggia cinquecentesca su largo Immacolata. L'edificio si
sviluppa su quattro livelli, di cui quello interrato è costituito da pozzi e
cisterne, e assume una notevole rilevanza archeologica per la presenza di
un ipogeo funerario. Al piano terra,
un'incisione riporta la data di ultimazione dei lavori di costruzione del
palazzo (1709). Una scala monumentale conduce
all'appartamento nobiliare sito al primo piano, nel cui salone è ospitato un
altare del settecento, mentre nella camera nuziale figurano i tre archi
sormontati da un ponte azzurro dello stemma di famiglia. Il secondo piano è
più piccolo e meno prestigioso da un punto di vista architettonico. |
TARANTO Durante i lavori di restauro, in corrispondenza dei locali
riservati alla stalla, furono scoperti alcuni resti delle antiche mura greche
che circondavano l'acropoli, risalenti
al V secolo a.C.,
nonché un ipogeo funerario con 8 tombe a fossa ricavate nella roccia, ed otto tombe ad arcosolio disposte lungo le pareti,
tutte di tipo paleocristiano.
Nel XIV secolo, il carparo locale fu
utilizzato per ricavarne materiale da
costruzione per i palazzi, per poi colmare l'area con i
residui della lavorazione. Le tombe ad arcosolio risultarono tutte violate,
probabilmente fin dal VII secolo,
mentre quelle a fossa non restituirono oggetti di corredo significativi.
All'esterno delle sepolture invece, furono ritrovati oggetti in ceramica di
origine nordafricana e
lucerne con simboli del Cristianesimo, utilizzati probabilmente
durante le cerimonie funebri che prevedevano un banchetto con i defunti,
un'usanza tramandataci con il nome di "Refrigerium": |
Tempio di Poseidone Il Tempio di Poseidone (o Tempio Dorico) è
un tempio periptero di ordine dorico situato nella odierna
piazza Castello nel centro storico di Taranto. Risulta essere il tempio più
antico della Magna Grecia ed
è l'unico luogo di culto greco ancora visitabile nel Borgo Antico. Il tempio è datato
al primo quarto del VI secolo a.C.. Si presuppone che la peristasi
dorica sia dovuta ad una fase di espansione successiva alla costruzione della
cella in quanto non si riscontrano connessioni costruttive nelle fondazioni
con il nucleo più antico. Il tempio ha subito saccheggi già in età postantica
e parti del tempio sono stati utilizzati per la costruzione di altri edifici.
I ruderi del tempio erano inglobati nella Chiesa della SS. Trinità, nel
cortile dell'Oratorio dei Trinitari, nella Casa Mastronuzzi e nel Convento
dei Celestini. Nel 1700 erano ancora
visibili dieci spezzoni di colonne, ma furono rimossi e andarono dispersi
durante il rifacimento del convento nel 1729.
Verso la fine dell'Ottocento,
l'archeologo Luigi Violane
studiò i resti ed attribuì il tempio al culto di Poseidone, ma esso è più probabilmente da
mettere in relazione con le divinità femminili di Artemide, Persefone o Hera. Altri reperti andarono dispersi con
la successiva demolizione del convento nel 1926 e
della vicina chiesa nel 1973. |
TARANTO Le devastazioni e i saccheggi susseguitesi nell'arco dei secoli,
nonché il fenomeno del reimpiego, ha reso
impossibile il compito di definire la planimetria esatta del tempio. Le 2 colonne di ordine dorico rimaste a
testimonianza dell'antico tempio magno-greco, più una base con 3 tamburi
o rocchi, furono realizzate in carparo
locale ricavato dalla stessa acropoli, e rappresentano il lato lungo
della "peristasis" del tempio, i cui resti sono stati individuati
nel chiostro e nelle cantine del Monastero di San Michele, che fa da sfondo
ai ruderi al fianco di Palazzo di
Città. Sono alte ciascuna 8,47 metri, con un diametro di 2,05
metri e un interasse di 3,72 metri: dall'osservazione dell'area della
"peristasis" e dal calcolo del rapporto tra la sua ampiezza e
l'interasse, si suppone che il tempio avesse il fronte rivolto verso il
canale navigabile, e che fosse costituito da 6 colonne sui lati corti e da 13
sui lati lunghi. Inoltre, sia il profilo del capitello che i "rocchi",
molto bassi e sovrapposti senza un perno centrale, fanno risalire i manufatti
agli inizi del V secolo a.C. |