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martedì 28 dicembre 2021

Monumento ai caduti della Grande Guerra


Per ricordare i 127 militari sannicandresi morti durante la prima guerra mondiale nel 1929 fu eretto un monumento noto come “Monumento ai Caduti”.

La progettazione fu affidata all’architetto Dioguardi e si realizzò grazie all’iniziativa del prof. Don Cosimo Losurdo e col denaro raccolto tra la popolazione e gli emigrati sannicandresi in America.

La struttura, in pietra bianca, si regge imponente in una delle piazze principali del paese.

Tutte le componenti del monumento denotano una matrice littoria, carpita da stili precedenti.

Il basamento è un misto rinascimentale e secessione viennese con aggiunte littorie. Il colonnato è un falso neoclassico.

La parte strutturale del monumento è lapidea. Nella parte interna del colonnato, sottostante alla trabeazione, delle dimensioni di 3,40*2,20 m, fuoriesce una campana in bronzo, avente le dimensioni alla base di circa 0,80 m di diametro e circa 1,50 m di altezza.

La particolarità della campana consiste nel fatto di essere stata realizzata a Vittorio Veneto con il bronzo dei cannoni austriaci. La campana, ancora oggi, ogni sera, con i suoi rituali cinque rintocchi, invita la popolazione ad un mistico raccoglimento di preghiera e di riflessione.

Nel 1980 il monumento è stato oggetto di un progetto di restauro a cura dell’ing. Franco Clarizio. Secondo la perizia tecnica illustrativa1 allegata al progetto, “La trabeazione che sorregge la campana è formata, dalla parte interna, da due solai, sovrapposti uno all’altro. Il solaio di sotto, che regge la campana non si può dire se eseguito in c.a. o cls e ferro N.P; l’altro, sovrastante, eseguito con calcestruzzo e travi in ferro NP componente il piano di copertura del primo sul cui bordo è collocata la cornice lapidea unitamente ai due leoni anch’essi lapidei.

Per riparare il monumento è necessario svellere, catalogare, pezzo dopo pezzo, cornice, tenia, cimasa e tutta la trabeazione, demolire i due solai, rifarli in c.a.; infine ricollocare allo stesso posto quanto divelto”.

mercoledì 1 dicembre 2021

Festa Patronale di San Giuseppe


 Ultima domenica di Giugno

Caratteristica è la processione della domenica con la partecipazione di tutte le confraternite religiose. Sfilano anche numerosi bambini vestiti da angioletti e coperti di ori in sella a cavalli in gualdrappa di seta.

L’immagine del Santo è seguita dal Sindaco e dai consiglieri comunali, con le guardie municipali, i portatori del Santo (Colonna di San Giuseppe) e i componenti la Commissione Feste Patronali. Il momento più importante della festa è quello della consegna delle chiavi della Città al Santo Patrono al centro del paese: a significare la avvenuta concordia tra potere temporale, rappresentato dal Sindaco, e da potere spirituale, rappresentato dal Parroco.

Il Sindaco, tramite il Parroco, consegna le chiavi della città del Santo.

Calderoni di San Giuseppe


Dopo il lungo inverno la vegetazione riprende il suo corso annuale. Occorre consumare tutto ciò che fa parte dell'annata agricola precedente per propiziare l'avvento del nuovo.

Nel mondo contadino l’origine della tradizione “du callareun” e “d la vemb a neuv” è certamente legata alla necessità di eliminare il vecchio per propiziare l’avvento del nuovo. La ritualità è molto antica e la si deve far risalire al primissimo e ancestrale periodo agricolo, nel quale la vita era strettamente legata alla natura, dalla quale non poteva assolutamente prescindere. Nell’antica “Peucetia”, in Grecia e Magna Grecia, si consideravano all’origine di tutte le cose i quattro elementi “Acqua – Aria – Terra - Fuoco”. Perché si potesse attuare un mutamento in natura o perché fosse possibile pensare a un prodotto della terra e alle sue modificazioni era essenziale la privazione. Di qui la opportunità, attraverso i “Callareun” e i “Vemba Neuv”, di consumare, privandosene, tutto ciò che era vecchio e faceva parte dell’annata precedente. Il fine era che la privazione si trasformasse in raccolto abbondante nella nuova stagione. E' interessante spiegare il significato di "Vemba neuv", cioè fiamma nuova. Il significante contiene l'augurio propiziatorio all'annata agricola successiva. L'aggettivo "Nuova" non era rivolto al passato o al presente, al momento cioè in cui la fiamma bruciava e consumava, ma al futuro e all'avvento. Le scintille verso il cielo, le cosiddette "omeomerie greche", ricomponevano il ciclo della natura, e a contatto con l'aria e con l'acqua (pioggia) il fuoco sosteneva la sua parte, a chiudere l'eterna azione di fecondare la Terra.

 Si tratta di una vera e propria esplosione di iniziative: 

1) da quelle degli Artigiani con le pagnotte di San Giuseppe e degli altarini sotto casa; 

2) a quelle della Confraternita di San Giuseppe e della Chiesa con le celebrazioni al Santo Patrono; 

3) con i "callarèun" spontanei del vicinato per aggregare e conversare intorno ai fuochi degustando vino primitivo e ceci e "fauv cuciv'l"; 

4) con la "vèmba néuv" dell'Arci a rinnovare con il fuoco l'anima contadina strettamente legata al Clima e alla Terra. In un tripudio di festa paesana che ci connota e ci entusiasma. 

La premiazione "du mègghje callarèun", valutato da una apposita Commissione presieduta dal Sindaco, darà visibilità e merito alla spontaneità e creatività rituale di questi stupendi momenti di aggregazione paesana.

"U callarèun g'ghent" conclude i festeggiamenti in onore del Santo Protettore di Sannicandro in anticipo della festa patronale.

Quarantana

Il Martedì Grasso è l'ultimo giorno di Carnevale. Il re del Carnevale, da noi si chiama "Aronz", dopo i bagordi e i peccati di gola carnevaleschi è costretto a passare la mano a "Quarantana" sua moglie, che il Mercoledì delle Ceneri avvia i 40 giorni della Quaresima fino al triduo pasquale. 

Morto, Carnevale viene trasportato in processione per le vie del paese, accompagnato all'estrema dimora dalla moglie Quarantana e dai parenti tutti che lo piangono disperati. 


Un tempo il corteo partiva dalla casina di Fiorese, sulla via di Bitetto, dove i protagonisti e le confraternite si radunavano. La scena simula in tutto la cerimonia di un vero e proprio funerale religioso cristiano con la partecipazione di una maschera che indossa paramenti da sacerdote, "Colin" che benedice il popolo intingendo acqua da “uarnàul”, e delle confraternite in sai di tela di sacco e incappucciati, con ceri e corone. 

Aronz ha il capo poggiato sulla carrizz, le prefiche che attorniano Quarantana (sua moglie) lo seguono e ne tessono le lodi elevando al cielo, di tanto in tanto, grida strazianti che segnano il passaggio dalla comunità terrena a quella celeste o infernale. 


Un tempo il corteo era seguito da maschere a cavallo o a torso di mule. I giovani dell'epoca, in gran parte agricoltori, da giorni avevano prenotato presso i rispettivi padroni il cavallo o la mula da montare e a dire il vero nessun proprietario si rifiutava di concedere in prestito il proprio animale. Al quadrupede venivano dipinti gli zoccoli, i fiocchi alla criniera e alla coda non dovevano mancare, una coppola era posta a copertura della testa e una mantella sulla groppa. Così bardati gli animali, alle tremolanti luci dei lampioni a gas, sfilavano in processione con i loro cavalieri che si erano mascherati ad arte per l'occasione con lunghe mantelle nere, grossi berretti calati sugli occhi, stivali fino all'altezza delle ginocchia; così sembravano al buio ma all'osservatore attento apparivano per quello che erano: calzari di sacchi vecchi avviluppati intorno ai piedi e agli stinchi e tenuti su da sfilacciate cordicine "i z'culèdd'r". Con baffi e barbe nere, tinti grazie alla fuliggine raschiata dentro i fuochi, le maschere a cavallo seguivano "Aronz" che all'epoca, anteriore al periodo di "Giorg la carrizz", aveva come protagonista "Savèrje u ng gnjer" netturbino presso la ditta Pistilli. Quando il corteo arrivava all'inizio dell'abitato, all'altezza del suolo su cui oggi sorge la scuola elementare "Don Bosco", gli spazzini che lo precedevano davano fiato alle trombe a cornetto, chiamando a stuolo i bambini e le donne fuori dalle case. 

Il rito della morte era così sancito dalla massima pubblicità, come avveniva per l'altra grande festa contadina: il matrimonio. Tutte le maschere del corteo piangevano la morte di "Aronz". 


Il corteo sfilava per le vie del paese; è interessante notare che all'epoca di "Savèrje u ng'gnjer" la "carrizz" veniva fermata all'altezza del municipio dove si doveva, puntualmente ogni anno, rispettare un breve cerimoniale: Quarantana, anchere tutte, dopo una pausa di silenzio, durante la quale soffrivano all'unisono: "Savèrje scangjell'ue ad Aronz" (Saverio cancella Oronzo). Il Saverio a cui si riferivano era don Saverio “du mn'cipie” ufficiale d'anagrafe presso il Comune di Sannicandro che doveva cancellare Oronzo dall'elenco dei vivi. La drammatizzazione era perfetta perché eseguita a soggetto da parte di maschere, spazzini e contadini con più di un bicchiere di nero primitivo nello stomaco che con grande spontaneità rendevano reale, crudele e ironico nello stesso tempo, tutta la scena. 


A Sannicandro sin dall'alba del Mercoledì delle Ceneri le dirimpettaie appendevano la pupattola ai balconi delle case: l'intero rito-spettacolo di passaggio la voleva testimone degli avvenimenti, quando il corteo funebre si scioglieva dopo il bruciamento di "Aronz", Quarantana doveva esaltare la vittoria della morte con la sua triste immagine. La "carrizz" veniva portata al suo naturale deposito in via Bari presso la ditta Pistilli, mentre le compagnie di contadini e spazzini si ricomponevano per recarsi in luoghi privati o nelle cantine a consumare il banchetto a base di agnellone, baccalà fritto e calzone con la cipolla. Alla fine di queste generose mangiate, soprattutto i giovani, scorazzavano per le vie del paese rovesciando i "ramair" contenitori d'occasione dei liquami casalinghi tenuti sull'uscio fuori dalle case. 

lunedì 29 novembre 2021

Sagra delle olive

Data Evento: Seconda domenica di ottobre

È la festa che attira più gente al paese, organizzata dall'associazione ARCI di Sannicandro di Bari.


Vengono offerti prodotti tipici locali: olive dolci, dell'ottimo pane, focaccia, vino di annata, pomodori secchi conservati in olio di oliva, frutta locale di stagione, olive in salamoia e olio extra vergine d'oliva di ottima qualità.

Inoltre vengono organizzate mostre di pittura, visite guidate al castello Normanno-Svevo, mostra mercato di piante coltivate in vivaio, esposizioni di macchine ed attrezzature per l'agricoltura, mostre dell'artigianato locale e convegni sui temi dell'agricoltura. Infine, tanta musica con artisti famosi in campo nazionale. 


Regina della rassegna: l’Oliva Termite, prodotto pregiato dell’olivicultura pugliese, riconoscibile per la caratteristica forma tondeggiante e le particolari proprietà organolettiche, quali il sapore, la fragranza, la sua polpa consistente e il suo colore da verde a violaceo nero.


L’Oliva Termite si raccoglie manualmente, non ancora matura, e va avviata entro 48 ore alla lavorazione in salamoia e alla conservazione con sale, aceto, olio extra vergine di oliva, spezie, erbe ed estratti naturali. Dolce al palato se consumata al naturale, mentre si esalta in un retrogusto leggermente amarognolo se conservata in salamoia. Ideale per accompagnare gli aperitivi, il suo utilizzo è ideale in cucina nella preparazione di focacce, panzerotti, condimenti per primi piatti e secondi a base di pesce. 


Castello Normanno Svevo di Sannicandro di Bari


Il Castello Normanno-Svevo è una fortificazione che sorge nella zona medievale di Sannicandro di Bari.

La sua storia documentata è soprattutto legata al mondo normanno ed inizia nel 1119, con l'attestazione di Emma d'Altavilla, che all'interno del presidio di prima dominazione normanna fa costruire la cappella palatina di San Nicola di Bari, nell'angolo di nord-ovest. Un ulteriore documento del 1134, periodo regnicolo, assegna le funzioni di Castellano ad un certo Guido da Venosa. È il momento di costruzione del Palazzo, delle quattro torri centrali rompitratta a rinforzarne le cortine, del nuovo portale rivolto a levante e del fossato con ponte levatoio. 

Nel 1800, in un lato di questo Castello ed attaccato alle sue mura, vi era l'antico fosso dove defluivano le acque delle diverse strade interne, in particolare quelle che venivano dalla strada dell'Ospedale. Questo fosso un tempo a cielo aperto, fu ricoperto da una volta. In esso esistevano canali di scolo attraverso i quali le acque confluivano, con due bocche, per poterle recuperare come da cisterne. I liquami che vi si raccoglievano per l'intero anno, putridi e malsani, emanavano esalazioni "mefitiche", e in estate si mettevano in fermentazione. Le esalazioni erano così micidiali che sarebbero state in grado di far mancare la vita all'istante, respirando vicino alle bocche. Perciò nonostante la quota elevata del Comune, gli abitanti erano soggetti a malattie infettive endemiche.

Nel marzo del 1816 gli Amministratori chiesero che questo inconveniente fosse eliminato e l'ingegner Gimma, con un consigliere di Intendenza, esaminò l'abitato per trovare la soluzione. Il Castello di Sannicandro di Bari sorge nella zona medievale del Paese, tra le caratteristiche case a scalinata esterna. Il fossato, risalente al periodo svevo, è stato colmato e trasformato in strada nel 1836. 

Il Castello è composto di due parti distinte messe l'una nell'altra, costruite in epoche diverse, quella Normanna e quella Sveva. Precedentemente, nello stesso sito, insisteva una struttura difensiva quadrilatera con quattro torri d'angolo a pianta circolare, di attribuzione bizantina, per la serie di monete coniate a Bisanzio e reperite all'interno delle mura di trincea sottostanti alle alzate normanne. Il recupero negli scavi archeologici di un tari aureo con legenda cufica di Gisulfo I e di monete degli imperatori d'Oriente dal IX all'XI secolo confermano questa realtà storica. 

L'importanza strategica del sito era rilevante, al centro di un sistema viario che realizzava i tragitti più brevi e più comodi da Bari verso i Centri Urbani più importanti dell'intera Area, quali Salerno e Matera, grazie alla cosiddetta "Via Vecchia Altamura o Via delle Murge o delle Crociate". È ormai acclarato che la vita storica del Castello di Sannicandro di Bari inizia nel 1119, con la prima documentazione che lo riguarda, quella di Emma d'Altavilla, figlia del Gran Conte Ruggero di Sicilia e sorella del Re Ruggero II. Nel "Catalogus Baronum", nelle edizioni del 1150 e del 1168, il Maniero è censito per 10 cavalieri alla pesante e per 20 in caso di guerra. Una piazzaforte formidabile dunque, con funzioni di sentinella sul territorio e soprattutto sulla città di Bari, che non aveva ancora realizzato il dominio regnicolo normanno nel suo "animus" levantino-bizantinofilo, di piena autonomia mercantile. 

Nel 1168 Custode del Castello è Guglielmo De Tot. Definito "Magister" in un articolo di Pasquale Cordasco relativo ai falsi medioevali, titolo reperito, grazie alla lampada di Wood sul tergo di una copia della pergamena di donazione del Castello di Gioia del Colle, da parte di Riccardo Siniscalco, alla Basilica di San Nicola di Bari. Per tutto il periodo normanno la storia castellare è abbastanza chiara e documentata, ma nel periodo svevo le carte improvvisamente tacciono e la struttura castellare scompare dalla memoria delle vicende storico-sociali. Eppure la fase di ampliamento dell'intero complesso è certamente da attribuire al periodo svevo-federiciano. Non si trovano riscontri del Castello nei documenti imperiali, né si può pensare che l'opera di ampliamento possa aver avuto come committente un Signore locale. 

"L'intera impiantistica, 1168-1212, a partire da Guglielmo De Tot fu realizzata con una spesa notevolissima e con l'utilizzo di maestranze specifiche Cistercensi... Un impegno economico così rilevante poteva essere sostenuto da un unico altro soggetto diverso da Federico II: un ordine cavalleresco". Un solo documento d'epoca sveva, un falso in forma di originale, datato 1225, attribuisce la giurisdizione delle Chiese sannicandresi all'Arcivescovo Andrea III con le relative decime, che da quest'ultimo verrebbero confermate al Monastero di San Michele Arcangelo di Montescaglioso.  I documenti ricompaiono stranamente nel periodo angioino, con una serie di Custodi del Castello e conduttori del Feudo. A partire dal dicembre 1269 abbiamo; Iverio De Mignac; Giovanni De Confluentia; Guido De Arcellis;; Egidio Da Capua; Vincenzo Picardi; Roberto De Saccavilla; Anselmo De Caprosia.

Nel 1272 Guillaume de Beaujeu, all'epoca Precettore Templare di Puglia, chiede a suo cugino Carlo I d'Angiò la restituzione delle terre Templari in Sannicandro di Bari, in quel tempo detenute illecitamente dal custode angioino del Castello Giovanni di Confluentia. In due documenti, sempre angioini del 1277 e del 1279 si parla del Castello di Sannicandro di Bari come di "Palatii nostrii" e di "Palatii regii", a ribadire la titolarità ai re d'Angiò del Castello e del Feudo. Alla fine delle Crociate la funzione del Castello è esaurita e Carlo II d'Angiò lo dona alla Basilica di San Nicola di Bari. La donazione del Re angioino chiude l'epopea castellare, esattamente da dove era cominciata, da San Nicola di Bari. Dal 1304 la gestione del Feudo è direttamente sostenuta dai Monaci, salvo un breve periodo tra il 1300 e il 1400. 

Quando, a seguito dei torbidi, con la discesa nel Regno di Luigi d'Ungheria e la fuga in Provenza della Regina Giovanna I, il Castello sembrerebbe assegnato ai Grimaldi di Monaco. Lo scudo araldico quattrocentesco fusato sul portale di levante proverebbe la veridicità di una tale segnalazione. Ma mancano altri elementi probatori. Con l'avvento del Regno d'Italia e a partire dal 1863, come attestato dalla data incisa sulla chiave d'arco di un portale d'ingresso, si dà inizio ai lavori di stravolgimento dell'intero impianto, con la trasformazione del Maniero in una serie di soprani e sottani da affittare a privati per abitazioni ed esercizi commerciali.

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